Le obiezioni all’esistenza dell’inferno sono antiche, se non quanto l’inferno, almeno quanto il cristianesimo. Appare in effetti in qualche modo comprensibile che l’uomo, per timore, senso di colpa o ignoranza affettata (cioè voluta e non giustificabile), voglia annichilire quelle pene che potrebbe dover subire, qualora esistessero realmente. Ma il timore, pur giustificato, l’angoscia prodotta dal senso di colpa e l’ignoranza sono le classiche cattive consigliere, che non ci danno la soluzione ai problemi, ma ci illudono con dei miraggi tanto belli quanto irragionevoli (“Tutti andremo in paradiso”, “Dio perdona sempre”, “L’inferno lo hanno inventato i preti per mettere in riga i monelli”, “Il diavolo nessuno lo ha visto”, etc).
Padre Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), uno dei principi della teologia cattolica del XX secolo, nota: “L’Inferno, propriamente parlando, designa lo stato dei dannati: demoni e uomini morti in peccato mortale, che sono eternamente puniti; esso indica pure il luogo in cui i dannati si trovano” (La vita eterna e la profondità dell’anima, Fede & Cultura, 2018, p, 116).
Dopo di che ci offre una breve pagina di sintesi storica della negazione del dogma. “L’esistenza dell’Inferno fu negata nel III secolo da Arnobio che sostenne, sulla scorta degli gnostici, che i riprovati vengono annichiliti; questo errore fu rinnovato nel XVI secolo dai sociniani. Gli origenisti, soprattutto nel IV secolo, hanno negato l’eternità delle pene infernali: secondo loro tutti i riprovati, angeli e uomini, alla fine si convertiranno. Questo errore fu ripreso dai protestanti liberali e dagli spiritisti. Tutti i razionalisti affermano che l’eternità delle pene ripugna alla sapienza di Dio, alla sua misericordia, alla sua giustizia, come se la pena dovesse essere proporzionata al tempo occorso per commettere la colpa e non alla gravità” (p. 116, corsivo mio).
Insomma, le classiche obiezioni al dogma dell’inferno attengono a 3 punti: 1) l’eternità delle pene; 2) l’apparente uguaglianza delle pene (per colpe diverse); 3) l’esistenza della pena del senso, comunemente detta il fuoco eterno.
Quanto alla prima obiezione, il Garrigou nota che l’eternità delle pene infernali “non può essere dimostrata apoditticamente” (p. 130). Essa quindi non è oggetto di scienza come lo sono, oltre alle verità fisiche e matematiche, anche certe verità speculative indubitabili, come l’esistenza di Dio, dell’anima spirituale, di una legge morale universale, etc. Nell’ambito della dottrina cattolica, “non si possono dimostrare apoditticamente né la possibilità né l’esistenza dei misteri della Santissima Trinità, dell’Incarnazione redentrice, della vita eterna [intesa come visione di Dio], così non si può dimostrare apoditticamente l’eternità delle pene” (p. 130). E’ ragionevole che Dio esista e che Dio punisca i malvagi, ma l’eternità delle pene appare a Garrigou-Lagrange meno attingibile alla luce della sola ragione. Un motivo in più per ringraziare il Signore di averci rivelato, per la nostra salvezza, questa importante verità.
Il teologo francese cita qui la dottrina di san Tommaso, esposta nella Summa teologica (specie alla q. 87, della I-II). Il peccato, che è sia un’offesa a Dio oltre che un atto contro la ragione, “merita una pena perché rovescia un ordine giustamente stabilito e dunque, finché dura questo disordine, il peccatore merita di subire la pena dovuta al peccato (…). Ebbene, il peccato mortale allontana l’uomo da Dio, suo ultimo fine, e gli fa perdere la grazia, principio o germe della vita eterna. Vi è quindi qui [in chi muore in stato di peccato mortale] un disordine irreparabile che per propria natura dura per sempre” (p. 131). D’altra parte, “il peccato mortale, come offesa a Dio, ha una gravità senza misura, in quanto nega praticamente a Dio la dignità infinita di fine ultimo o di supremo bene, al quale il peccatore preferisce un bene finito, amando se stesso più di Dio” (p. 131). D’altra parte, il linguaggio di Gesù è chiarissimo: i peccatori senza pentimento “se ne andranno al supplizio eterno” (Mt 25,46).
Il rapporto tra la durata del peccato e l’eternità delle pene non ha senso. S. Tommaso: “L’adulterio, o l’omicidio, non viene punito con la pena di un momento per il fatto che è stato commesso in un momento, ma viene punito talvolta con il carcere perpetuo o con l’esilio, e talvolta anche con la morte” (art. 3). Anche oggi la frode informatica è celere come un click sul computer, ma può meritare vari anni di galera.
Padre Garrigou cita pure il predicatore Monsabré (1827-1907) che disse: “Trasportare nell’ordine morale la negazione dell’eternità delle pene è oscurare la nozione del bene e del male, che per noi non si rischiara che alla luce di questo terribile dogma” (p. 133).
Secondo alcuni l’eternità delle pene sarebbe incompatibile con la misericordia di Dio. S. Tommaso: “Dio per parte sua ha misericordia di tutti: siccome però la sua misericordia è regolata secondo l’ordine della saggezza, non si estende a coloro i quali si sono resi indegni di riceverla, come sono i demoni e i dannati, ostinati nel male” (Suppl. q. 99, citato a p. 137).
E se i dannati si pentissero? Come spiegano S. Tommaso e Garrigou, il dannato prova rimorso, poiché “la sinderesi non si estingue mai” (De Veritate, q. 16, a. 3); ma al contempo “è incapace di mutare il rimorso in pentimento (…), egli [il dannato] deplora il suo peccato non come colpa, ma soltanto come causa delle proprie sofferenze” (p. 147).
Inoltre, “se la beatitudine, che è la ricompensa dei giusti, è eterna, conviene che lo sia pure la pena degli empi ostinati” (p. 133). Credo che possa bastare per chi dubita – e oggi sono legioni – della fondatezza logica e teologica dell’eternità dell’inferno.
Quanto all’obiezione n. 2 sull’uguaglianza delle pene infernali dei dannati c’è poco da dire. Esse infatti non sono uguali nel rigore, ma diversificate in base alle colpe commesse in vita. Sono uguali solo nella durata, la quale nella vita dell’al di là è un accidente insuperabile. Obiezione quindi respinta al mittente!
L’obiezione n. 3 si sofferma sulla nozione controversa di fuoco eterno. Esisterà un fuoco, o comunque una pena sensibile, o la sola pena sarà la perdita del paradiso? Anzitutto bisogna tenere presente che la pena del danno (ovvero la perdita eterna della visione divina che invece avranno i beati in cielo) è la pena principale. La pena, detta dai teologi, del senso è secondaria. Ma anche la pena del senso è fondata nell’insegnamento di Cristo. “Via lontano da me, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli” (Mt 25,41). E ripetutamente nei Vangeli si parla della Geenna del fuoco inestinguibile (Mt 10,28; Mc 9,42). Secondo Garrigou, “La dottrina comune dei Padri e dei teologi asserisce che questo fuoco è un fuoco reale (…). L’interpretazione metaforica, supponendo che il fuoco, come il dolore lo il rimorso, non sia che una penosa affezione dell’anima, va contro il senso ovvio dei testi scritturali e della Tradizione” (pp. 152-153).
Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato sotto l’autorità di Giovanni Paolo II (prima nel 1992 ed in edizione rivista e definitiva nel 1997), scrive: “la Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e della sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, il fuoco eterno” (n. 1035).
D’altra parte, si osservino due cose che fanno capire che veramente la paura dell’inferno, come il timor di Dio, può essere l’inizio della sapienza. Il Catechismo afferma: “Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità (…), un pressante appello alla conversione” (n. 1036). Scriveva padre Garrigou che “è assai probabile (…) che [Dio] non permetta l’impenitenza finale se non per i peccatori inveterati, perché come afferma san Pietro: Il Signore è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3,9).
Fabrizio Cannone