La pandemia del coronavirus ci ha messo di fronte a problematiche derivate da carenze nella nostra società. Ma saremo capaci di trarre la giusta lezione?
Algoritmi che pensano di poter prevedere ogni cosa, come dei nuovi oracoli. Tecnologie al limite dell’umano, senso di onnipotenza che arroga il diritto di stravolgere la natura dell’uomo, dalle tematiche bioetiche a quelle legate allo stravolgimento della sessualità umana. Tutti argomenti che pongono quesiti seri, verso i quali la reclusione e la crisi del coronavirus ci offre opportunità di riflessione.
Quali lezioni dal coronavirus?
Di fronte alla malattia infatti ci siamo ritrovati tutti più uniti, accomunati da un destino unico, basato sulla realtà della vita e della morte, inscritta nella natura umana. Condizione raffigurata al meglio dalle parole di Papa Francesco quando ha affermato che siamo “tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo”.
A questi quesiti ha provato a rispondere il filosofo Mauro Ceruti, intervistato dal quotidiano della Cei Avvenire. Lo scrittore già due anni fa nel libro “Il tempo della Complessità” metteva sull’attenti rispetto a una possibile crisi che avrebbe potuto scaturirsi da fatti imprevisti, come è accaduto con la pandemia del coronavirus. Si tratta di quello che è stato rinominato “Il cigno nero”.
Tutto è connesso ma ci scordiamo di chi è a fianco
“Il problema è un altro: è prevedibile che accada l’imprevedibile“, spiega il filosofo. “Ma ciò non lo rende comunque prevedibile. Per questo bisogna sviluppare la capacità di affrontare l’intreccio di concause, l’incerto, l’aleatorio, l’imprevisto. Soprattutto nel caso dei virus…”. La pandemia, in particolare, ci ha mostrato quali sono le insidie e i rischi dovuti alla globalizzazione.
A un mondo in cui tutto è interconnesso e dove in un secondo ci colleghiamo con chi sta dall’altra parte del mondo, dimenticandoci però di chi ci è a fianco. “I fili della globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica sono aggrovigliati e inestricabili”, spiega. Ma la consapevolezza che emerge è che “non bastano risposte tecniche a singoli problemi”.
La semplificazione non ci fa vedere la realtà
In quanto “il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice”. Un vizio, quello della pigrizia anche nel ragionamento, che per Ceruti “si accompagna alla droga della quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono le sofferenze umane”. Che però “mai devono essere lo scarto muto della politica”.
Ora però bisogna tornare all’immediatezza dei problemi. La crisi è in via di superamento, oppure è appena iniziata? La domanda risuona con inquietudine, ma se ci si affida al Signore tutto questo assume uno sguardo diverso. Si diventa consapevoli che nelle Sue mani non c’è nulla da temere, che la strada è segnata solo perché è Lui che lo permette.
La fiducia nel Signore è l’unica strada percorribile
La fiducia nella Sua opera è infatti l’unica che può assisterci al meglio in questo momento di incertezza, se siamo consapevoli che questa non ci abbandonerà mai. “La metafora del tunnel non funziona”, spiega Ceruti.
“Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assumere la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra al nemico, che si genera la creatività umana”.
Il dramma della solitudine emerso con il Coronavirus
Un dramma che emerso è quello della solitudine. Il coronavirus ci ha mostrato che anche se siamo tutti connessi la solitudine aumenta, che si può morire soli senza nessuno intorno, da un momento all’altro, per un evento inaspettato. L’impossibilità di celebrare funerali ha mostrato un lato del tutto disumano della nostra società.
Le scene di corpi abbandonati nelle fosse comuni, negli Stati Uniti, hanno riportato a galla immagini che pensavamo di non dover mai più sopportare, che ci riportano a tempi di guerra e di dolore. Eppure, anestetizzati nei nostri schermi, tutto questo rischia di non smuoverci nelle nostre convinzioni troppo spesso anti-umane.
Il tabù della morte e il riappropriarsi della vita
E rivela aspetti inquietanti del nostro tempo. Come il tabù della morte e la sua totale esclusione dal immaginario collettivo, quasi a voler fingere che non esista. “Il dramma della solitudine del morire, in questi giorni, ci spinge a voler ritrovare questo grande rimosso della nostra civiltà: proprio il morire. Che abbiamo sempre più confinato e sterilizzato fuori dalla nostra cura, fuori dalla necessità di tenere e farci tenere la mano”, spiega il filosofo.
Ma “il bisogno di riappropriazione della morte può essere una via per riappropriarsi della vita. Viviamo questo tempo trascinati da quanto passa sui nostri schermi, la tv, la rete sembrano le grandi soccorritrici”. Però tutto questo mostra che “c’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali”.
Ripartire da ciò che conta dopo il Coronavirus
Come farlo, però in concreto? Ripartendo dalle priorità, da ciò che conta. Dalla riforma dei sistemi di educazione e di istruzione, per esempio. “C’è ancora poca interdisciplinarità e molta burocratizzazione, tecnicizzazione nelle scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro i saperi, i problemi, le crisi”.
Oppure dal ripensamento della medicina e dei sistemi di sanità pubblica. Con una scienza che sia “polidisciplinare”, dice. Con un ruolo della politica e delle istituzioni che deve essere completamente ripensato, in ambito italiano ma anche europeo, dove la crisi delle istituzioni è stata aggravata dal coronavirus. In quanto, “di fronte al pericolo comune, lo spirito di solidarietà è mancato”.
Per questo “è necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale, non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta”.
Giovanni Bernardi
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