Eccezione italiana”. Così san Giovanni Paolo II ha più volte definito la nostra nazione.
“Eccezione” rispetto a orientamenti radicati appena fuori dai nostri confini o nelle principali istituzioni europee: ciò che ci ha fatto opporre qualche resistenza alla pesante invadenza libertaria, difendere il Crocifisso nei luoghi pubblici, ospitare in concreto e senza barriere centinaia di migliaia di persone in fuga da persecuzioni e da guerre, mantenere un tessuto sociale lacerato ma non atomizzato.
È una “eccezione” che esiste perché, nonostante gli attacchi furibondi e negli ultimi tempi intensificati, in Italia la famiglia regge ancora. È come una casa bombardata, rispetto alla quale negli ultimi anni le istituzioni nazionali si sono concentrate a demolire quel poco che è rimasto in piedi; ma è una casa nelle cui stanze ancora non picconate trovano soluzione problemi e contrasti che altrove esploderebbero.
Quasi per nulla rappresentate in parlamento e nel governo, il 20 giugno le famiglie italiane si ritrovano a Roma, in piazza San Giovanni, per dirla in prima persona e senza mediazioni. Non ce l’hanno con qualcuno o con qualcosa: racconteranno le difficoltà della loro esistenza concreta e rivendicheranno il dovere e il diritto di educare i propri bambini. Lo slogan “difendiamo i nostri figli” non ha nulla di ideologico, anzi ripudia la “colonizzazione ideologica” – per riprendere papa Francesco – costituita dalla imposizione del gender a scuola.
Chi ha avuto la ventura di girare l’Italia man mano che è cresciuto lo sforzo di “istruire al gender” fin dalla scuola materna, ha constatato la preoccupazione di tanti genitori: mandiamo i figli a scuola perché imparino l’italiano e le tabelline, e ci tornano a casa “rieducati” da esponenti lgbt su aspetti che solo noi genitori siamo abilitati ad affrontare con la delicatezza del colloquio personale! Non si può fare nulla? È la domanda che segue lo smarrimento. Certo, in tante scuole i genitori si organizzano; quando è necessario – o da soli o accompagnati da un avvocato – affrontano l’insegnante o il direttore scolastico. Il senso della manifestazione del 20 giugno non è surrogare la maggiore attenzione oggi richiesta a un padre e a una madre di fronte a ciò che penetra nella scuola: è incoraggiare questi sforzi, collegarli, rendere evidente che non si tratta di qualche pattuglia di genitori retrò, ma a un popolo unito e numeroso. Un popolo che non intende mandare i figli nei “campi di indottrinamento” (altra espressione del Papa), che non rilascia deleghe educative e che, insoddisfatto di chi potrebbe rappresentarlo, si esprime in prima persona.
Per questo da parte di chi ha lanciato l’iniziativa non c’è alcun richiamo se non il titolo della stessa; non c’è un elenco di associazioni o movimenti, pur se più d’uno di essi si impegna perché intervengano i propri: protagoniste sono le famiglie, non le sigle. Non sono cercate sponsorizzazioni: in piazza ci saranno laici, cristiani e non, che sentono la responsabilità del momento e la esercitano convinti che il loro ruolo non dipenda da autorizzazioni o permessi. E non è neanche il bis del Family day: otto anni trascorsi dal maggio 2007 sono tanti; il quadro normativo riguardante la famiglia è mutato profondamente. Non è un remake. Può essere se mai l’inizio di un rapporto diverso fra famiglie e istituzioni: anche a proposito di disegni di legge in discussione, i pochi senatori e deputati che mantengono posizioni ragionevoli ne trarranno sostegno, gli altri non potranno ignorare che una parte di Italia non condivide imposizioni ideologiche. È quella parte che ancora adesso tiene in piedi un pezzo di “eccezione italiana”. E poiché è una “felice eccezione”, piazza San Giovanni è chiamata a dare speranza che la nostra nazione resti in tal senso “eccezionale”.
Fonte: Tempi.it