La Chiesa come istituzione e i sacerdoti come messaggeri del verbo ci insegnano che il prendere l’Eucarestia è l’ultimo passo di un percorso di condivisione, ascolto e partecipazione che non può assurgere alla sua massima funzione se non consta dei passi precedenti. Il fedele sa che la Messa è un momento di raccoglimento in cui s’impara ad ascoltare cosa Dio ha da dirci e che il cibarsi della carne di Cristo è un privilegio riservato a chi di quella parola ha fatto tesoro e l’ha resa il codice della sua esistenza. Per approcciarci alla Sacra Eucarestia dobbiamo, dunque, essere puri di cuore al punto da poterci permettere di chiedere in preghiera alla Madonna di farci da tramite per ricevere dentro di noi il corpo di Dio incarnato, lo stesso che Lei per prima a ricevuto come premio per la sua purezza e la sua dedizione alla parola di Dio.
Per essere degni di questo privilegio, però, non ci dobbiamo limitare a seguire con attenzione la Santa Messa, dobbiamo vivere il suo messaggio ogni giorno, pregando, facendo digiuni, e approcciandoci al prossimo con generosità e misericordia come se ognuno di loro (e per chi crede è davvero così) fosse Gesù Cristo in persona. A questo bisogna aggiungere il digiuno e la confessione, sacramento quest’ultimo che deve essere effettuato con costanza (una volta a settimana o massimo una al mese) per non essere in stato di peccato grave e trovarsi nella condizione di non poter ricevere il corpo di Cristo. Illuminanti per far comprendere ai fedeli come l’ascolto passivo della parola di Dio possa far soffrire Gesù sono le parole di Luisa Piccarreta raccolte ne ‘Il libro del Cielo’ edito nel 1933. Di seguito vi offriamo un passaggio dello scritto che si trova nel capitolo 24 e illustra la solitudine di Gesù in un mondo in cui i fedeli ascoltano passivamente la sua parola:
“Avendo fatta la Santa Comunione stavo facendo i miei soliti ringraziamenti, ed il mio Sommo Bene Gesù si faceva vedere afflitto e taciturno, come se sentisse il bisogno della compagnia; ed io stringendomi a Lui cercavo di consolarlo con l’esibirmi [nello] starmi con Lui sempre unita, per non lasciarlo mai solo, e Gesù [ne] pareva tutto contento e, per sfogare il suo dolore, mi ha detto: ‘Figlia mia, siimi fedele a non lasciarmi mai solo, perché la pena della solitudine è la più opprimente; perché la compagnia è l’alimento dello sfogo di chi soffre, invece senza compagnia si soffre il dolore e si è costretti a sentire la fame, perché manca chi le dà lo sfogo dell’alimento; manca tutto, e forse manca chi potesse offrire il sollievo, fosse pure una medicina amara’”.
Il Signore la fa partecipe del suo dolore, della solitudine che prova nel vedere che molti non comprendono il suo messaggio e non condividono il suo mondo, un dolore che diventa quasi insostenibile dato che in queste condizioni il suo amore infinito non può essere elargito: “Figlia mia, quante anime Mi ricevono Sacramentato nei loro cuori e Mi mettono in solitudine! Mi sento in esse come dentro d’un deserto, come se non [loro] appartenessi. Mi trattano da estraneo; ma sai perché? Non prendono parte alla mia vita, alle mie virtù, alla mia santità, alle mie gioie ed ai miei dolori. Compagnia significa prendere parte a tutto ciò che fa e soffre la persona che gli sta vicino. Quindi, ricevermi e non prendere parte alla mia vita, è per Me la solitudine più amara; e, restando solo non posso [dir loro] quanto brucio d’amore per loro e perciò resta isolato il mio amore, la mia santità, la mia virtù, la mia vita, insomma tutto è solitudine in Me e fuori di Me. Oh, quante volte scendo nei cuori e piango, perché Mi veggo solo! E quando scendo, vedendomi solo Mi sento non curato, né apprezzato, né amato, tanto che son costretto dalla loro noncuranza a ridurmi al silenzio ed alla mestizia. E siccome non prendono parte alla mia Vita Sacramentale, Mi sento appartato nei loro cuori e, vedendomi che non ho che fare, con pazienza divina ed invitta, aspetto la consumazione delle Specie Sacramentali – dentro delle quali il mio Fiat Eterno Mi aveva imprigionato -, lasciando appena le tracce della mia discesa; perché nulla ho potuto lasciare della mia vita Sacramentale, forse le sole mie lacrime, perché, non avendo preso parte alla mia vita, mancava il vuoto dove poter lasciare le cose che a Me appartengono e che Io volevo mettere in comune con loro. Perciò si veggono tante anime che Mi ricevono Sacramentato e non danno di Me: sono sterili di virtù, sterili d’amore, di sacrificio. Poverelle, si cibano di Me, ma siccome non Mi fanno compagnia restano digiune!”.
Ma se Gesù soffre nel non poter condividere l’amore e le grazie di cui è portatore, infinita gioia prova nel momento in cui un’anima affine lo ama incondizionatamente e si fa trovare pronta a riceverlo: “Tu devi sapere che non sono più in mio potere le pene, e le vado chiedendo, per amore, a queste specie viventi delle anime, ché Mi suppliscano a ciò che a Me manca. Perciò, figlia mia, quando trovo un cuore che Mi ama e Mi fa compagnia dandomi libertà di fare quello che voglio, Io giungo agli eccessi, non ci bado a nulla, do tanto che la povera creatura si sente affogare dal mio amore e dalle mie grazie. Ed allora non resta più sterile la mia Vita Sacramentale quando scendo nei cuori, no, ma [si] riproduce, bilocando e continuando la mia vita in essa”.
Luca Scapatello
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