Se un matrimonio è celebrato in chiesa, per tradizione e non per fede soprattutto tra due atei, può ritenersi valido?
Non è facile rispondere a questa domanda, poiché implicherebbe un’attenta “misurazione” della fede dell’uomo e della donna che si presentano all’altare di Dio.
Potremmo cercare di chiarire le idee, citando un documento di Giovanni Paolo II: “Un atteggiamento dei nubendi, che non tenga conto della dimensione soprannaturale del matrimonio, può renderlo nullo, solo se ne intacca la validità sul piano naturale, nel quale è posto lo stesso segno sacramentale”.
Ossia, ciò che potrebbe rendere nullo un matrimonio è il non credere che in esso si possa attuare il progetto di Dio.
In un altro documento, Giovanni Paolo II diceva: “I fidanzati, in forza del loro battesimo, sono realmente già inseriti nell’Alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa e che, per la loro retta intenzione, hanno accolto il progetto di Dio sul matrimonio e, quindi, almeno implicitamente, acconsentono a ciò che la Chiesa intende fare quando celebrano il matrimonio. (…) Voler stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione ecclesiale del matrimonio, che dovrebbero riguardare il grado di fede dei nubendi, comporta oltre tutto gravi rischi. Quello anzitutto di pronunciare giudizi infondati e discriminatori (…). Quando al contrario, nonostante ogni tentativo fatto, i nubendi mostrano di rifiutare in modo esplicito e formale ciò che la Chiesa intende compiere, quando si celebra il matrimonio dei battezzati, il pastore d’anime non può ammetterli alla celebrazione”.
Lo sottolinea, del resto, anche il documento CEI “Evangelizzazione e Sacramento del Matrimonio”, del 20 Giugno 1975, quando ribadisce che la validità del matrimonio non è subordinata alla fede dei nubendi, anche se essa è necessaria per la “fruttuosità del Sacramento”.
Pare che non si possa, dunque, rispondere esaurientemente alla domanda, ma solo fare delle considerazioni e auspicare che coloro che decidono di contrarre matrimonio lo facciano per la giusta motivazione e non si sottraggano, volontariamente, alla grazia del Sacramento stesso.
La Commissione Teologica Internazionale afferma: “Non bisogna confondere il problema della intentio faciendi con quello relativo alla fede personale dei contraenti, ma non è neppure possibile separarli totalmente. In ultima analisi, la vera intenzione nasce e si nutre di una fede viva. Nel caso in cui non si avverta alcuna traccia della fede in quanto tales né alcun desiderio della grazia e della salvezza, si pone il problema di sapere, in realtà, se l’intenzione generale e veramente sacramentale sia presente o no e se il matrimonio è contratto validamente o no. La fede personale dei contraenti non costituisce, come si è notato, la sacramentalità del matrimonio, ma l’assenza della fede personale può compromettere la validità del matrimonio”.
Chi decide di sposarsi davanti a Dio dovrebbe avere, per lo meno, l’intenzione di condurre una vita in cui il Cristo è posto al centro di ogni scelta, perché nessun Sacramento sia celebrato a nome proprio, ma ogni matrimonio venga benedetto in nome di Dio.
Antonella Sanicanti