I medici cubani arrivati in Italia lo scorso 22 marzo, nel pieno della pandemia del Coronavirus, ora sono candidati al premio Nobel per la pace.
In quell’occasione il loro gesto era risuonato come una ventata di aria fresca. L’intenzione era quella di aiutare la Lombardia in forte crisi per via degli oltre tremila casi quotidiani e un sistema sanitario al collasso. Solidarietà, spirito di sacrificio, volontà di partecipazione al dolore altrui. Tutte qualità che hanno caratterizzato la scelta dei medici cubani di venire in Italia. Ora sono candidati all’ambito premio internazionale.
Tutti hanno ancora davanti agli occhi le immagini dei camion militari che portano via le bare dall’ospedale di Cremona. Con il loro supporto i medici cubani, intenzionati a dare una mano all’ospedale da campo allestito in tempi rapidissimi nel parcheggio dell’ospedale di Crema, hanno infatti aiutato ad evitare il degenerarsi di una situazione già pesantemente allo stremo.
I giovani venuti da Cuba hanno poi continuato a prestare il loro supporto fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Sono ripartiti per Cuba solamente l’8 giugno, dopo i 14 giorni necessari di quarantena richiesti dalle normative internazionali, quando il virus aveva ormai ben varcato le soglie italiane e si era già diffuso in tutto il pianeta.
Sono passati sei mesi oggi da quel ritorno a casa, e la candidatura ufficiale al premio Nobel per la pace rappresenta così la chiusura di un cerchio, oltre che un meritato gesto di riconoscimento per il loro spirito di sacrificio. A presentare la candidatura è stato il Consiglio mondiale per la pace.
Anche il sindaco di Crema Stefania Bonaldi ha però partecipato alla gioia e alla commozione dei medici. “Difficile esprimere a parole la gioia, la commozione, l’orgoglio e lo straordinario affetto che proviamo per i nostri hermanos de Cuba”, ha affermato il sindaco.
“Abbiamo fatto nostro il loro motto: La nostra patria è l’umanità”. Già nel momento del ritorno il sindaco aveva infatti mostrato la sua commossa gratitudine, a sottolineare l’importanza di collaborare e farsi forza anche tra Paesi distanti, condividendo il dolore e affrontando il male insieme e con coraggio.
In quell’occasione il sindaco aveva fatto notare, elogiando i medici, la loro partenza avvenuta “in punta di piedi, così come erano arrivati”. Segno di una umiltà che è caratteristica umana oltre che professionale, ma anche della volontà di dare un segno di fraternità senza portarsi dietro la grancassa mediatica, evidentemente non molto interessati alle opere di questi medici venuti dall’America centrale.
“Ci sentiamo fortunati perché oltre a dei professionisti abbiamo conosciuto dei fratelli”, aveva così commentato ancora Stefania Bonaldi, tra le lacrime in cui si mescolava il dolore per il duro momento vissuto e allo stesso tempo l’ammirazione per i giovani venuti dall’altra sponda dell’Oceano Pacifico a combattere il terribile nemico invisibile.
“All’alba siamo saliti sul loro autobus con la bandiera di Cuba tra le mani e con gli occhi lucidi per ringraziarli ancora una volta”, aveva concluso ancora il primo cittadino. “Ma ci piace pensare che sia stato solo un arrivederci e non un addio, perché continueremo a fare cose belle insieme“.
Giovanni Bernardi
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