Mons. Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, in esclusiva per la Luce di Maria, racconta cosa lo ha colpito più di tutto a Medjugorje.
Innanzitutto ringrazio S.E. Mons. Rino Fisichella, per la sua disponibilità a questa intervista per La Luce di Maria.
Ho ascoltato con entusiasmo e attenzione la sua catechesi e poi la sua omelia, durante il Festival dei Giovani 2019, e ho cercato di fissare nel mio cuore, prima ancora che sul mio taccuino, i suoi preziosi insegnamenti. Poi, mentre era in procinto di partire da Medjugorje, ho avuto l’occasione di incontrarlo e di rivolgergli alcune domande che sono lieta di condividere con voi.
Si è la prima volta, per ovvi motivi, in quanto responsabile del dicastero della Nuova Evangelizzazione. La Santa Sede segue con molta premura e molto interesse la vicenda di Medjugorje. E quindi, da quando papa Francesco, alcuni mesi fa, ha concesso la sua autorizzazione ai pellegrinaggi ufficiali anche a Medjugorje, l’invito del delegato pontificio mi è giunto con particolare piacere.
Come si sa, il dicastero della nuova evangelizzazione ha la responsabilità pastorale dei santuari nel mondo. Seppur Medjugorje non è ancora riconosciuto santuario, è però una meta di milioni di pellegrini ogni anno. E noi avendo anche la responsabilità dei pellegrinaggi, ho molto gradito l’invito a partecipare, perché mi ha permesso di venire qui. Ma soprattutto diventa un passo ulteriore nel valutare e considerare, la presenza di milioni di pellegrini, e soprattutto in questa circostanza, di tanti giovani.
Ciò che colpisce un pellegrino come me per la prima volta a Medjugorje, è il clima di preghiera che lo qualifica da tanti altri luoghi, dove ti aspetti la preghiera che si svolge nei luoghi delle apparizioni, all’interno dei santuari, di fronte alle icone della Vergine o dei Santi.
Qui però il clima di preghiera si estende anche oltre. Colpisce che i pellegrini ovunque camminano col Rosario tre le mani e pregano: lungo la strada, salendo sulla Collina, in ogni dove. Questo credo sia veramente un indizio quanto mai favorevole, per considerare la peculiarità di Medjugorje.
Inoltre mi ha molto colpito verificare la presenza di così tanti giovani. E’ vero che questa è la 30a edizione del Festival dei Giovani, però mi è sembrato di rivivere in piccolo la giornata mondiale della Gioventù. Penso che questa sia una tappa molto importante che definisce Medjugorje, e coinvolge tutti.
Non solo nell’accoglienza di numerosi giovani ma anche nella formazione che viene data loro. Il clima di preghiera si arricchisce, attraverso le catechesi e il dialogo con tanti giovani provenienti da ogni parte del mondo, di una formazione che è quanto mai importante oggi, soprattutto per la nuova evangelizzazione.
La nuova evangelizzazione vive di quella che è la vita ordinaria della Chiesa, vissuta però in maniera straordinaria, perché i tempi lo richiedono. Quella che è la vita di tutti i giorni della Chiesa, è fonte, origine e scopo dell’evangelizzazione. In questa nuova fase dell’evangelizzazione noi siamo chiamati a riscoprire il significato della nostra vita quotidiana.
Certamente il primo posto è dovuto alla preghiera – alla riscoperta della preghiera – che diventa e trova il suo culmine nella preghiera eucaristica e quindi anche nell’adorazione. Devo sottolineare che è davvero significativo ciò che è accaduto l’ultima sera del Festival! Dopo due ore di una celebrazione eucaristica così intensa, abbiamo assistito al grande silenzio che i nostri giovani e i nostri sacerdoti, c’erano circa 800 sacerdoti, hanno mantenuto per tutto il tempo prolungato dell’adorazione eucaristica.
Questi elementi sono il fondamento attraverso cui la nuova evangelizzazione si realizza. A me piace riportare in tal senso un’espressione di papa Francesco, pronunciata subito agli inizi del suo pontificato:“La nuova evangelizzazione si fa in ginocchio”. E quindi riscoprire questa dimensione adorante, questa dimensione della preghiera, è per noi certamente un punto indelebile, ma altresì un punto di partenza e di arrivo fondamentale!
Poi non dobbiamo dimenticare che la vita cristiana si esplicita, si rende visibile anche in altri momenti che sono altrettanto validi, e che scaturiscono da una vita di preghiera. Penso in primo luogo alla testimonianza della carità. Noi non possiamo mai dimenticare che i santuari sono luoghi di accoglienza, dove si incontrano le diverse povertà del mondo, non ci sono soltanto le povertà sociologiche, quelle che noi normalmente individuiamo.
Ci sono altresì le povertà esistenziali, verso le quali la testimonianza della carità è fondamentale, perché caratterizza lo stile di vita cristiano. Come c’è poi l’esigenza di comunicare la Fede, di rendere partecipi gli altri della nostra esperienza di Fede. Sono solito dire, che come siamo capaci di compiere dei gesti di benvenuto per chi arriva nei nostri santuari, così dovremmo essere altrettanto capaci di compiere dei gesti, e pure una liturgia, con cui salutare il pellegrino quando ritorna a casa.
Credo che quanto ho detto nella catechesi, dipenda da alcuni fattori particolari. Il primo è quello di far comprendere che il vero amore non dipende in prima istanza da noi. Ma il vero amore dipende da un’esperienza di ricevere amore. Nessuno ama veramente se prima non è stato amato.
Noi purtroppo viviamo in un contesto culturale in cui mettiamo al primo posto noi stessi, ciò che noi siamo, ciò che noi desideriamo. Tante volte non riusciamo a percepire invece l’esperienza originaria e originante, vale a dire la capacità di percepire di essere amati. Da questo punto di vista mi sembra fondamentale porsi davanti a Dio col desiderio di non impedire a Lui di amarci.
Credo che il più delle volte la nostra resistenza, sia tutta quanta lì. Il voler autodeterminare la nostra vita a partire da noi stessi, da ciò che noi pensiamo, da ciò che noi progettiamo. E in tutto questo Dio riveste un ruolo marginale. Ecco perché non si comprende profondamente l’amore. Ed ecco perché andiamo sempre più spesso incontro ai fallimenti dell’amore.
L’amore vero, autentico, ci insegna l’evangelista Giovanni nella sua Prima lettera, consiste proprio in questo: non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio per primo ci ha amato. Allora quando ci poniamo davanti a un testo come questo – che non dimentichiamolo è Parola di Dio, è un testo rivelato – dobbiamo scoprire realmente il valore profondo che possiede.
In questo consiste l’amore, che Dio ci ha amati per primi. Allora siamo chiamati a scoprire nella nostra vita, questa esperienza profonda per la quale Dio ci è venuto incontro. Dio ci ha posto in essere, ci ha donato la vita, Dio continua ad accompagnarci. Lo fa attraverso quelle espressioni che indicano sempre di più il desiderio di Dio, se posso usare questo termine, di renderci più partecipi della sua vita divina, che è vita di amore.
Non dimentichiamolo. Dio è amore! La sua vita è intrisa di amore, è solo ed esclusivamente amore. Questo amore è un dare tutto se stesso, tutto! Dio non tiene nulla per sé, Dio dà tutto, e in questo dare tutto ci fa capire che ha dato se stesso per me, per ognuno di noi. Ecco perché diciamo che amare vuol dire dare tutto se stessi, non avremmo mai (!) potuto pronunciare un’espressione come questa, se Dio non l’avesse vissuta e pronunciata per primo.
Simona Amabene
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