Può l’uccisione di un innocente essere la cosa giusta da fare?
No, la soppressione di una vita non potrà mai essere la soluzione.
Due medici pro aborto effettuano a Lucia un cesareo prematuro e la neonata muore l’8 marzo.
La drammatica vicenda di Lucia di 11 anni (nome di fantasia per tutelare l’identità della bambina) rimasta incinta dopo aver subito uno stupro dal compagno della nonna, dall’Argentina è rimbalzata oltre oceano fino in Italia ed è diventata strumento di una campagna per la rivendicazione della legalizzazione dell’aborto in Argentina, dove per altro è consentito dal 1921 in caso di stupro e in situazioni in cui la salute della donna è in pericolo. Inoltre, nel 2012 è stato stabilito un protocollo per poter praticare queste interruzioni.
Alla piccola vittima che vive nella provincia di Tucuman (nel nord-ovest dell’Argentina) alla fine è stato effettuato un cesareo al quinto mese. Nonostante il parere contrario della maggioranza dei dottori. L’intervento è stato praticato da una coppia di medici favorevoli all’aborto. Significativo che la neonata che portava nel grembo, Faustina, nata il 27 febbraio, è morta l’8 Marzo. Proprio il giorno internazionale della donna, ma dei diritti della vita di questa piccola donna non hanno voluto tenere conto.
E’ una storia che fa rabbrividire! Un dramma nel dramma, che ha provocato due vittime, due bambine, entrambe innocenti.
Le associazioni femministe strumentalizzano il caso
Quello che fa male è la strumentalizzazione del caso da parte delle associazioni femministe a favore dell’aborto e di Amnesty International, che ha definito violazione dei diritti umani il rifiuto da parte della maggior parte dei medici di effettuare l’aborto. Da notare che vengono contemplati i “diritti umani” sempre e solo da una parte e non quelli del nascituro. Ma la decisione dei medici di non abortire nonostante l’articolo 86 del codice penale argentino non condanni l’aborto in casi come questo, ha considerato quelli che erano i maggiori rischi per la salute di Lucia, e l’aborto o il cesareo avrebbero potuto procurare gravi conseguenze per la sua salute, quali l’asportazione dell’utero e persino la morte. Oltre ciò, c’era la volontà di salvare le vite di entrambe le bambine.
Esiste ancora un altro motivo: come ha rivelato il giornalista argentino Mariano Obarrio “In un documento firmato da tutti, i medici determinarono che il prolungamento della gravidanza con le cure quotidiane adeguate non avrebbe rappresentato un rischio maggiore rispetto a quello di un qualunque paziente normale”.
La strategia è sempre la stessa, portare alla ribalta un caso limite per giustificare e ottenere l’approvazione dell’aborto, facendolo passare per la scelta migliore, ma l’uccisione di una vita non potrà mai essere il bene maggiore. Mai!
In Italia, la legge 194 approvata il 22 maggio 1978, prevederebbe che si faccia tutto il possibile affinché la donna riceva tutte le informazioni e il supporto che la aiutino a superare le cause che la portano all’interruzione della gravidanza. Ma la realtà è un’altra. Non c’è assolutamente la volontà di sostenere una scelta delle donne a favore della vita. Lo prova sono gli episodi di censura contro Pro Vita a cui abbiamo dato voce nei mesi scorsi e il boicottaggio della testimonianza di Gianna Jessen, sopravvissuta al tentativo della madre di abortirla. Le statistiche parlano chiaro: ogni anno si effettuano nel nostro paese circa 100.000 aborti!
Sono 100.000 esseri umani a cui vieni impedito di vivere e di conseguenza a future generazioni di esistere.
Perché non si assiste alla stessa mobilitazione di fronte alla pratica dell’utero in affitto che sfrutta le donne più deboli?
Ma gli attivisti per i diritti delle donne in Argentina sono sul piede di guerra. “Lo Stato è responsabile della tortura di Lucia”. Lo ha detto #NiUnaMenos, che significa “non uno di meno”, una delle organizzazioni femministe che guidano la campagna per legalizzare l’aborto. Mariana Carbajal, giornalista e attivista femminista che per prima ha raccontato la storia di Lucía, ha invece scritto su Twitter: “Tucumán l’ha trattata come un recipiente, come un’incubatrice”.
Quello che stona e suscita una domanda che fa capire quanto siano ingannate queste attiviste, alle quali in verità non interessa tutelate il vero bene della donna, è perché non si mobilitino con tanto ardore nei confronti della pratica dell’utero in affitto che è a tutti gli effetti uno sfruttamento e mercificazione del corpo delle donne e in particolare di quelle che vivono in una condizione di grave difficoltà economica? Questa pratica non riduce appunto una donna a recipiente e incubatrice? Il loro silenzio di fronte a tutto ciò rivela la loro totale incoerenza.
Simona Amabene