Non si può che dire no alla guerra in siria, senza se e senza ma prendere le distanze dal recente bombardamento notturno condotto dall’alleanza composta dal gendarme planetario (Stati Uniti), dal suo fido scudiero inglese e dal paese guidato dal rampante toy boy di Brigitte su alcuni siti sensibili della Siria.
L’azione militare pone alcuni quesiti. Come noto, è stata condotta in risposta al presunto uso di armi chimiche da parte delle truppe governative contro i ribelli nella città di Douma. Ma che gli uominidi Assad abbiano commesso ciò di cui sono accusati è tutto da dimostrare: al contrario, non solo non si hanno evidenze univoche in proposito ma i precedenti ci dicono che in passato l’esercito governativo è stato incriminato dagli Stati Uniti e Israele di atti mai compiuti, anzi commessi proprio da quei ribelli appoggiati dall’occidente, come evidenziato nel documentato volume del giornalista australiano Tim Anderson La sporca guerra contro la Siria (ed. Zambon). Una tesi avvalorata da un testimone eccellente dei fatti, il vescovo caldeo di Aleppo mons. Audo, secondo il quale l’accusa dell’uso di armi chimiche “è un falso e serve solo come pretesto per prolungare il conflitto ed alimentare il commercio nefando di armi”. Sono accuse molto pesanti, pronunciate da una figura di altissimo livello, di cui bisognerebbe tenere maggior conto. Altro aspetto che avvalora questa tesi: non è la prima volta che il nostro paese segue in maniera acritica e del tutto passiva l’alleanza atlantica in pericolose avventure belliche. Si pensi all’Afghanistan, con un’operazione iniziata nel 2001 e dove hanno perso la vita ben trecentomila persone, fra le quali trenta dei nostri soldati. Non sembra che a distanza di quasi 20 anni da quell’azione militare le cose si siano risolte, anzi. Non meno odioso è stato il successivo intervento in Iraq, dove il dittatore Saddam Husseinvenne accusato di detenere nei suoi arsenali quantitativi imprecisati di armi di distruzione di massa. È bene sottolineare che le accuse formulate nei confronti del dittatore iracheno erano un falso clamoroso. Ebbene, nessuno fra i giornaloni che oggi si riempiono la bocca del termine fake news disse nulla su quello che era un’evidente truffa ordita ai danni dell’opinione pubblica: anzi, tutti lì a sostenere l’intervento militare, che sarebbe poi costato secondo stime prudenti circa 400 mila morti. Dal canto nostro noi inviammo un contingente di circa 3200 uomini, 24 dei quali non sarebbero più tornati a casa. Perché tutto questo? Semplice: gli Sati Uniti ebbero un ruolo centrale nella ricostruzione e nel garantirsi lo sfruttamento delle materie prime di cui l’Iraq è ricco, petrolio in primis. Ma la popolazione ha subito e continua a subire atrocità indicibili, che non sembrano al momento aver fine. Questo caso ricorda molto da vicino quello siriano, con un uso spregiudicato dei media volto a sensibilizzare l’opinione pubblica circa la “bontà” dell’intervento bellico, tramite quelli che in gergo sono chiamati “false flag”, cioè atti commessi segretamente da Tizio ma dei quali è accusato pubblicamente Caio. E anche in questo caso ci sono buone possibilità che le cose stiano esattamente come in Iraq. Il punto è capire se quanto è successo in passato serva a rendere impermeabili i cittadini di fronte a questi nuovi tentativi di trascinare il Paese in una nuova sgangherata impresa militare dove gli interessi in ballo non sono quelli della tutela dei civili, bensì coinvolgimenti geopolitici a spese di un territorio (e di un popolo) dove la Russia e il suo alleato Iran hanno acquisito un ruolo prioritario. Un’ulteriore motivo per desistere da ogni coinvolgimento è stata la fallimentare impresa di Libia. Qui il colonnello Gheddafi, che potesse piacere o no, governava quello che era uno dei paesi più ricchi e sviluppati dell’Africa. Paradossalmente fu proprio un grande beneficiario dei finanziamenti libici, il primo ministro francese Sarkozy, a promuovere un’azione della NATO contro la Libia, sull’onda dell’entusiasmo di quella che fu chiamata la primavera araba. Intervento militare che trasformò la Libia, un paese fino a quel momento con i migliori livelli di vita in Africa, in un altro inferno in terra, con decine di migliaia di morti e l’assenza ormai cronica di una qualsivoglia forma di governo stabile, visto che per accaparrarsi il potere sono in lotta una serie di fazioni divise da questioni etniche e tribali. Senza dimenticare le conseguenze che per noi ha comportato il crollo del precedente regime libico, in termini di assenza totale di controllo e filtro delle frontiere con un incremento esponenziale di migranti clandestini e morti in mare. Tutto questo e molto altro ancora (si pensi alla possibilità, seppur remota di una escalation militare) ci fa dire NO a qualsiasi tentativo di appoggiare per l’ennesima volta una impresa militare senza capo né coda, motivata da beceri interessi economico-commerciali. Inutile dire che l’abortista Emma Bonino, che già aveva avallato e sostenuto con forza i precedenti interventi militari in Afghanistan, Iraq e Libia, adesso auspica che il nostro Paese si imbarchi anche in questa impresa: già questo motivo da solo sarebbe più che sufficiente da renderci degli strenui sostenitori della pace a tutti i costi. Si faccia fare prima chiarezza sull’effettivo uso dei gas da parte di un ente terzo e veramente neutrale: se queste accuse saranno provate, allora si potrà procedere con sanzioni mirate al regime di Assad. Concludo ribadendo le parole del pontefice, che già si è espresso in maniera coerente sulla questione: se in riferimento all’uso dei gas chimici ha riaffermato che “Nulla giustifica l’uso di armi di sterminio di massa” e che l’unica soluzione vera della questione “è un negoziato” (8 aprile 2018), perché il male non si vince con il male. E in questo più che mai, un intervento militare, può essere assolutamente identificato come “male”.
Alessandro Laudadio