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Da 59 anni vive in un polmone d’acciaio. Eppure ogni giorno ringrazia Dio, Perchè?

Immobilizzata da 59 anni, vive grazie a un polmone d’acciaio. «Non sono arrabbiata con Dio. Anzi, questa condizione ha aumentato la mia voglia di vivere»


La luce, nell’ottobre dello scorso anno, se n’era andata a causa dell’esondazione del Bisagno e Giovanna era agitatissima. Da 59 anni vive infilata in un polmone d’acciaio di notte e attaccata a un respiratore di giorno: il suo diaframma ha smesso di funzionare. Senza corrente, le mancava letteralmente il respiro, una volta finita la carica delle batterie di emergenza; i vigili del fuoco le avevano portato un generatore da alimentare a benzina e gli angeli custodi che si prendono cura di lei notte e giorno – Teresa da oltre 20 anni (lei la definisce «quasi una seconda mamma») e l’ecuadoriana Doris – si svegliavano a turno per ricaricarlo.

Finché l’Enel ha ripristinato l’utenza nel suo palazzo, dove abita da sempre al quarto piano, senza ascensore. Prima ci viveva con sua madre Maria, morta nel 2001.

Da 14 anni ci abita con le badanti, che ogni mattina verso le 11 la tirano fuori dal polmone d’acciaio per lavarla, pettinarla, custodirne il corpo e trasferirla con un elevatore – sempre nella sua minuscola cameretta – sul letto, dove resta fino a mezzanotte circa. E di nuovo così il giorno successivo, in una lunga catena di albe e tramonti visti da quella finestra che affaccia su via Canevari.

Ma per Giovanna Romanato «una giornata non è mai uguale a un’altra». Ricorda con un sorriso la sua infanzia serena fino a 10 anni, quando una poliomielite le provocò un’infezione acuta con la paralisi delle gambe e delle braccia, insieme a una gravissima insufficienza respiratoria. «Allora non esisteva il vaccino anti-polio. Mi ricoverarono d’urgenza all’ospedale Gaslini e suor Luigia mi disse che mi avrebbero messo nel polmone d’acciaio, rassicurandomi: “Dopo ti sentirai meglio”. Poi ogni tanto chiedevo a mia madre: “Potrò tornare a correre?”, ma dentro di me sapevo che non sarebbe stato possibile», racconta lucidamente, senza un’ombra di rimpianto nella voce. Anche se avrebbe sognato di «fare la hostess e la mamma», ammette.

Invece è diventata madre spirituale di tante persone che al suo capezzale si sono sfogate, confidate, incontrate e anche sposate. «Se mi hanno portato i confetti? È il minimo!», scherza, con uno sguardo che inchioda chi le è davanti: bloccata in un letto o nel polmone, che lascia libero solo il volto, gli occhi emanano serenità nella sofferenza, con un filo di ombretto perlato. «Non mi sono mai sentita arrabbiata con Dio, né con gli altri. Anzi, la mia condizione ha acuito la voglia di vivere. Rimango senza parole davanti ai suicidi: ci sono tanti motivi per non togliersi la vita, ma in quei momenti drammatici penso che non si riesca a ragionare lucidamente. Sono convinta che con la salute sia più facile superare i problemi, ma forse chi ha la salute non se ne rende conto».

Niente ribellione, dunque, ma neanche rassegnazione. Giovanna muove un po’ una sola mano, con cui riesce a scrivere al computer e su Facebook, usare il telefono e anche WhatsApp. Si tiene sempre aggiornata: «Con Internet posso leggere al computer le e-mail e in televisione vedere documentari, telegiornali, vari programmi. Leggo molto i giornali e telefono. E sono felice quando qualcuno viene a trovarmi. Così il tempo passa velocemente», confida in un soffio.

Sul comodino, un’agenda dove chi passa può lasciare una dedica, un pensiero. Lei fatica a parlare, pronuncia poche parole ma semplici e dirette: «Non ho mai chiesto un miracolo. Vorrei solo che ci fosse il bene per chi amo. Prego per le persone che mi sono care, non tutte le mattine però. E dico grazie a Dio per la giornata trascorsa». Fra i santi, il suo preferito è Francesco «perché ha lasciato tutto per seguire il Signore».

A proposito di preghiera, papa Francesco le ha spedito a casa un rosario benedetto e una lettera, in risposta all’invio del libro La farfalla nel bozzolo d’acciaio, in cui Giovanna racconta la sua storia al giornalista Rai Enzo Melillo. «Attraverso la Segreteria di Stato, il Pontefice ha informato Giovanna che prega per lei e si complimenta per lo spirito di sopportazione cristiana con cui vive la sua condizione», riferisce Melillo, che l’ha conosciuta nel 2006: «Ero andato a casa sua per realizzare un servizio andato in onda sul tg regionale della Liguria. Da allora, ho cominciato ad andare a trovarla e ci siamo sentiti al telefono. Ho pensato di scrivere un libro-intervista per far conoscere una persona senza manie di protagonismo e modesta. Chi la conosce sa quanto sia capace di dare sollievo agli altri, con il suo sorriso e la sua capacità di ascolto. Lei è come una farfalla che esce dal suo bozzolo d’acciaio, dispiega le sue ali e vola leggera sulle vite degli altri, arricchendole. E i diritti d’autore sono interamente devoluti a lei».

La camera di Giovanna, quindi, si apre a tutti con i suoi colori pastello, i peluche fra i quali si mimetizza l’amato gatto Fiocco, i libri e le foto appese alle pareti, il polmone d’acciaio tappezzato di calamite e di sciarpe della Sampdoria, la squadra del cuore. Ogni centimetro quadrato gronda di quel tenace attaccamento all’esistenza di cui lei, a 69 anni, è testimone coraggiosa.

 

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