San Giovanni Battista de’ Rossi si distinse per la carità con cui svolgeva il suo ministero presbiteriale nonostante una malattia che lo ha fatto soffrire per tutta la vita.
Il Martirologio Romano ricorda San Giovanni Battista de’ Rossi come “sacerdote, che accolse i poveri e i più emarginati, insegnando loro la sacra dottrina“. Nato a Voltaggio in provincia di Genova il 22 febbraio 1698 da una famiglia agiata ma decaduta era l’ultimo di quattro figli e rimase orfano di padre a 12 anni.
L’anno successivo andò a Roma a studiare presso i gesuiti e successivamente intraprese l’approfondimento della filosofia e della teologia nello studium domenicano alla Minerva, intitolato a san Tommaso d’Aquino. Proprio in questo periodo della sua giovinezza si manifestò la malattia che lo accompagnò per tutta la vita, l’epilessia. Nel frattempo maturò la sua vocazione religiosa, ma a causa delle continue crisi epilettiche e quindi della sua salute così fragile c’era il rischio che il suo sogno di diventare sacerdote non potesse realizzarsi.
Nella fragilità la forza di amare gli altri
Nel 1721 ottenne una dispensa canonica e a 23 anni ci fu la sua ordinazione sacerdotale. Celebrò la sua prima messa sulla tomba di san Luigi Gonzaga, nella chiesa dei Gesuiti. Aveva una grande intelligenza, fuori dal comune, e concluse gli studi in anticipo sui tempi previsti. Da giovane sacerdote subito si adoperò per gli altri manifestando grande carità.
Fondò la Pia Unione di Sacerdoti Secolari, che nel secolo successivo sarà poi guidata dal futuro Pio IX, il papa che lo beatificò. La sua attività caritatevole si esplicava in tanti modo: aiutava le donne povere che non avevano casa a trovare un rifugio, portava conforto ai malati nelle loro abitazioni, si prodigava di insegnare le verità di fede e di morale ai giovani.
Diventò assistente di suo cugino che era il canonico dell’ antica Basilica di Santa Maria in Cosmedin a Roma. Lì trascorse il resto della sua vita mentre sempre di più cresceva la sua fama di santità. Quando il cugino fu colpito da un ictus sopravvisse ma divenne irascibile e lo trattava molto male. Arrivava a lanciargli addosso gli oggetti, lo rimproverava ingiustamente e fu per lui una grandissima prova da sopportare.
Ma nonostante tutto questo lo accudiva amorevolmente. Poi, quando questi morì nel 1737 prese il suo posto e divenne canonico a Santa Maria in Cosmedin. Decise di scegliere la povertà e di donare ai poveri quanto avevaricavato dalla vendita della casa del cugino.
In confessionale nonostante la malattia
Per molto tempo il timore degli attacchi epilettici lo aveva tenuto lontano dall’amministrare il sacramento della Confessione, ma poi superò questa paura e si dedicò con molto zelo proprio al suo ruolo di confessore.
C’erano lunghe file per confessarsi da lui e a questa attività affiancava l’assistenza ai malati. Presso l’Ospizio di san Galla e presso la Trinità dei Pellegrini si dedicò ad introdurre tempi di preghiera e garantire momenti di colloquio per i malati per far trovare loro un conforto pieno nella sofferenza. Fondò anche un altro Ospizio dedicato ad accogliere le donne.
Nel 1748 la sua salute subì un peggioramento, ma nonostante questo lui continuò a svolgere il suo ministero al meglio. Celebrava la Messa, ascoltava le confessioni e si recava in cercare e perfino nelle taverne per evangelizzare.
Si stabilì nel convitto sacerdotale della Trinità dei Pellegrini e nel 1760 rinunciò al canonicato, riservandosi una piccola pensione e uno stallo in coro. Trascorse l’ultimo anno e mezzo a letto per la malattia e si spense il 23 maggio 1764.
La canonizzazione arrivò l’8 dicembre 1881. La scrittrice inglese Elizabeth Herbert scrisse una sua biografia. Inizialmente fu sepolto ai piedi dell’altare a lui dedicato nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, poi nel 1965 le sue reliquie furono trasferite in una chiesa parrocchiale che gli fu intitolata sull’Appio Latino. All’interno della basilica di Santa Maria in Cosmedin c’è una cappella a lui dedicata.