La forza della santità è stata la costante della vita del cardinale Schuster, arcivescovo di Milano che svolse eroicamente il suo compito di pastore.
Il cardinale Schuster fu arcivescovo di Milano, la più grande arcidiocesi italiana, nel tormentato periodo del regime fascista, la seconda guerra mondiale e i non meno difficili anni del dopoguerra.
Figlio di Johann, caposarto bavarese degli zuavi pontifici, Alfredo Ildefonso Schuster nasce a Roma nel 1880. Anche la madre, Maria Anna Tutzer, proviene dal mondo germanofono (veniva da Renon, sopra Bolzano, allora ancora parte del Tirolo asburgico). Rimasto orfano di padre, grazie all’aiuto di un benefattore a 11 anni entra nello studentato di San Paolo fuori le mura dove viene educato alla preghiera, al silenzio e all’ascesi e presto sente maturare in sé il desiderio di farsi monaco benedettino nella stessa abbazia.
Ha 24 anni quando diventa sacerdote e subito si vede affidare incarichi di grande importanza e delicatezza. In pochi anni diventa abate finché Papa Pio XI nel 1929 non lo nomina arcivescovo di Milano e cardinale. Si ispira al grande Carlo Borromeo e cerca di imitarlo nel suo ministero, in particolare nel suo amore per il popolo e nella passione che metteva nel difendere la fede. Anche lui, come il Borromeo, si spende integralmente senza risparmiarsi.
In venticinque anni fa per ben cinque volte il giro delle parrocchie del territorio diocesano. Ma la sua attività non si ferma qui: scrive anche lettere al popolo e al clero per difendere la fede nella sua purezza. È attivo promotore di sinodi diocesani e congressi eucaristici, invia prescrizioni in campo liturgico.
Grande amante della preghiera e della liturgia, quando indossa le vesti liturgiche è come si trasfigurasse malgrado l’esilità della figura e la fragilità del suo fisico. Naturalmente inclinato per il silenzio e la contemplazione, si vedeva sempre «a colloquio con l’invisibile potenza di Dio», riferiscono alcuni testimoni.
Esige che i suoi sacerdoti si santifichino. Questo perché, afferma, «pare che la gente non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega». Allo stesso modo il monaco-cardinale si dice convinto che «il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi, ha paura invece della nostra santità».
La morte lo coglie quasi all’improvviso il 30 agosto 1954, mentre si trova nel seminario di Venegono dove stava cercando di recuperare le forze spese nel suo logorante impegno pastorale. Una sua frase riflette in pieno la vita che aveva condotto: «Alla fine ciò che conta per la vera grandezza della Chiesa e dei suoi figli è l’amore».
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