Viene sempre raffigurato con molti animali domestici attorno e questo binomio era così profondo nell’immaginazione popolare che, quando un animale si ammalava veniva detto “un sant’Antonio”.
Nell’ iconografia, spesso accanto al Santo arde sempre un fuoco: “il fuoco di S. Antonio” in riferimento alla dolorosa infiammazione virale, l’herpes zoster, così comunemente chiamata; anticamente per la guarigione si invocava Sant’Antonio Abate che aveva sopportato nel suo corpo piaghe dolorosissime scatenate da Satana, proprio come un fuoco infernale.
Numerosi ospedali (Ospedali del Tau) sorsero in tutta la cristianità per curare questa temibile malattia. I corpi piagati venivano unti con il grasso di maiale dagli abati detti Antoniani che si erano specializzati nella cura degli infermi.
Questi Abati Antoniani venivano chiamati anche “Cavalieri del tau”, per la loro divisa che era formata da una veste e da un manto neri, con una croce di sole tre braccia di colore azzurro, cucita sopra il cuore.
Le leggende popolari dicono che la notte di S. Antonio gli animali acquistano la “virtù”, cioè hanno la facoltà di parlare e nelle stalle i contadini possono capire ciò che dicono.
Ma questo santo non è solo una leggenda, visse realmente e la sua storia è documentata storicamente e i suoi discepoli la fecero conoscere al mondo attraverso un libro.
Antonio nacque a Coma in Egitto (l’odierna Qumans) intorno al 251 in una famiglia di ricchi agricoltori cristiani.
Rimasto orfano prima dei vent’anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, fece sue le parole di Gesù:”Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri” (Mt 19,21).
Così, dopo aver distribuito i suoi beni ai poveri e affidata la sorella ad una comunità femminile, seguì la vita solitaria che già altri eremiti facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità.
Mentre era nel deserto, si racconta che ebbe una visione o un sogno in cui Antonio vide un eremita come lui che passava le giornate dividendo il tempo tra la preghiera e l’intreccio di una corda.
Da questa immagine l’eremita capì che, per essere “perfetti” la povertà e la preghiera non bastavano, e che l’uomo doveva dedicarsi ad un lavoro.
Così ispirato continuò a vivere da eremita, accompagnando la preghiera con il lavoro, i cui frutti gli servivano per procurarsi il cibo e per fare la carità ai più bisognosi.
Ma questa vita santa non lo difendeva dalle tentazioni che furono fortissime unite ai dubbi sulla validità della vita solitaria.
Altri eremiti che Antonio consultò lo incoraggiarono a perseverare e lo consigliarono di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo.
Allora, coperto da un rude panno, si chiuse in una tomba scavata nella roccia vicino al suo villaggio a pregare ed a digiunare.
Si racconta che in questo luogo venne fisicamente aggredito e picchiato dal diavolo che lo lasciò svenuto sul posto.
Ritrovato dalle persone che si recavano da lui per il cibo fu trasportato nella chiesa del villaggio dove venne curato.
Si narra che nell’anno 285 Antonio si spostò in una grotta del monte Pispir, vicino al Mar Rosso dove esisteva una fortezza romana abbandonata, là rimase per circa 20 anni, nutrendosi solo con l’acqua di sorgente ed il pane che gli veniva calato due volte all’anno.
Anche in questo luogo, nonostante i suoi sforzi alla ricerca della totale purificazione, il diavolo continuò a torturarlo crudelmente e cominciarono a raccogliersi intorno a lui dei discepoli che lui guidava alla vita di anacoreti mentre personalmente si dedicò ai sofferenti, operando, secondo tradizione, “guarigioni” e “liberazioni dal demonio”.
Nel 311, durante la persecuzione dell’Imperatore Massimino Daia, Antonio tornò ad Alessandria per sostenere e confortare i cristiani perseguitati, senza peraltro venire arrestato.
Durante il suo apostolato Antonio preferì sempre la vita solitaria degli anacoreti a quella dei monasteri; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che, sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio in luoghi solitari.
Per questo i suoi seguaci, chiamati Padri del Deserto, vivevano in grotte e anfratti, sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come guida spirituale.
La vita di Antonio abate è nota soprattutto attraverso la Vita Antonii pubblicata nel 357, opera agiografica attribuita al suo discepolo Atanasio, vescovo di Alessandria, che fu da lui aiutato nella lotta contro la setta di eretici dell’Arianesimo.
L’opera, tradotta in varie lingue, divenne popolare tanto in Oriente quanto in Occidente e diede un contributo importante all’affermazione degli ideali della vita monastica. Il grande rilievo dato in questa opera alla descrizione della lotta di Antonio contro le tentazioni del demonio, ha ispirato gli artisti dei secoli successivi.
Antonio, che venne chiamato anche sant’Antonio il Grande, sant’Antonio d’Egitto, sant’Antonio del Fuoco, sant’Antonio del Deserto, sant’Antonio l’Anacoreta, visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, ultracentenario, il 17 gennaio 357 e venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto.
Il successo di Sant’Antonio Abate fra i temi delle arti figurative venne divulgato nel XIII secolo, ad opera della “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine ed il santo venne ben presto considerato il patriarca del monachesimo, per la sua lunga consuetudine con la vita eremitica e le sue capacità taumaturgiche.
La protezione di San’Antonio si allargò dagli animali agli uomini che avevano a che fare con loro
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