Certamente lascia -ogni volta- di stucco il passo del Vangelo in cui Gesù espone a Pietro l’importanza del perdono: “ “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi … ”.” e prosegue con l’esempio del servo che non condona affatto, a sua volta, il debito di un suo pari e per questo gli viene sottratta la grazie che precedentemente aveva ottenuto.
Dovremmo riflettere profondamente sul pretendere il perdono, se non siamo disposti, oltremodo, ad offrire il nostro.
Quella di Gesù è una richiesta non facile da accettare, poiché, in parole povere, ci propone di ingoiare bocconi amari e comprendere fraternamente, anche chi ci tratta con estrema ingiustizia, mentre pure i fatti di cronaca nera ci fanno salire la rabbia, contro quelle persone che hanno ucciso e violentato.
Dice Don Ermes Ronchi, commentando quel passo del Vangelo: “ “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.”, cioè sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché il Vangelo di Gesù, non è spostare un po’ più avanti i paletti della morale, ma è la lieta notizia che l’amore di Dio non ha misura. Perché devo perdonare? Perché cancellare i debiti? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.”
“Compassione” dovrebbe essere la nostra parola d’ordine, quindi, quell’atteggiamento che ci fa oltrepassare l’orgoglio di voler essere i giustizieri della notte e ci riporta alla dimensione della correzione fraterna e amorevole.
Del resto, è comprensione anche quella che vorremmo provasse Dio nei nostri confronti, quando, un giorno, ci mostreremo al suo cospetto.
“Il re non è il campione del diritto, ma della compassione. Sente come suo il dolore del servo e sente che questo conta più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell’oro. E per noi subito s’apre l’alternativa: o acquisire un cuore regale o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, appena uscito, trovò un servo come lui. Appena uscito, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo; appena uscito, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia (…) “ … presolo per il collo, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi.”, lui, perdonato di miliardi!”.
E’ immediato capire l’errore del servo, ascoltando la Parabola, ma nella vita reale, quando tocca a noi perdonare, la cosa diventa quasi impraticabile, chiusi come siamo delle nostre pretese personali, che, più che alla giustizia oggettiva, si appellano a quella soggettiva.
“Così anche noi: bravissimi a calare sul piatto tutti i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri. E passiamo nel mondo come predatori, anziché come servitori della vita.
Giustizia umana è dare a ciascuno il suo. Ma ecco che, su questa linea dell’equivalenza, dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l’altra guancia. (…)
Quando non voglio perdonare (il perdono non è un istinto, ma una decisione), quando di fronte a un’offesa riscuoto il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza.”.
E non si può proprio essere cristiani propagando la violenza; è necessario imparare a somigliare a Gesù nella sua mansuetudine, nella sua umiltà, nel suo mettersi a disposizione e consumarsi per gli altri, anche quando le ragione del mondo vorrebbero darci (forse giustamente) gli abiti del boia.
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