In questo stesso giorno di 30 anni fa, l’Italia era al centro di una terribile tragedia, ancora una volta, per mano della mafia. Era il 19 luglio 1992 quando un’auto, con 90 kg di esplosivo al suo interno, venne fatta esplodere in via D’Amelio a Palermo.
Lì il giudice Paolo Borsellino ha trovato la morte, insieme ai suoi uomini di scorta. Una delle pagine più buie della storia d’Italia.
La lotta alla mafia non si è più fermata, anzi. Il loro sacrificio non è stato invano. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 sono due date che l’Italia intera ha impresse nella propria memoria. Giovanni Falcone prima, e Paolo Borsellino poi: sono loro che la mafia ha ucciso, ma non di certo gli ideali per i quali combattevano.
Oggi, a 30 anni di distanza da quelle stragi, il ricordo è ancora vivo ed indelebile e, specialmente le nuove generazioni, hanno il diritto di conoscere e di sapere chi, come e quando, tutto questo è accaduto.
Ma prima di parlare di cosa successe quel 19 luglio di 30 anni fa, è doveroso parlare, anche, di un aspetto particolare della vita del giudice Borsellino: la sua fede. Non per forza andare a guardare ai momenti più eclatanti della sua vita di uomo di legge e di Stato, ma anche scoprire quei lati più riservati di un uomo che poggiava la sua vita, anche, sul suo credere in Dio.
Era molto riservato Paolo Borsellino sulla sua fede. Era cattolico e praticante ed il bene e la cura per l’altro che gli era accanto erano insiti in lui. Una fede cristiana sempre vissuta, ma mai ostentata. “Paolo era convinto che, dietro ogni imputato, c’era prima l’uomo che andava rispettato” – racconta, dalle pagine di Famiglia Cristiana, Diego Cavaliero, all’epoca sostituto Procuratore di Marsala.
Una fede intima, sincera. La domenica mattina partecipava alla Santa Messa delle ore 8.30, proclamava una delle letture. Si confessava spesso e dialogava anche con i sacerdoti, specie nei momenti più complicati della sua vita. C’era sempre, raramente mancava.
Un giorno, parlando con Monsignor Ficarotta, parroco della chiesa che si trovava vicino al condominio dove Borsellino abitava, lo stesso giudice gli confida quanto gli risulti difficile partecipare ai funerali di uomini importanti e, quanto anche, mettersi in fila per ricevere la Comunione. Per lui, racconta il Monsignore a Famiglia Cristiana, “non è la giusta testimonianza di cristiano” quella di mettersi in mostra, specie in queste occasioni.
Sono in tanti coloro che, ogni domenica, lo vedono partecipare alla Messa. Non è una persona che ama mettersi in prima fila. Borsellino si siede sempre lì, verso gli ultimi banchi, si mette in ginocchio e prega con fede viva, sincera e profonda.
Sarà, anche, la fede ad aiutarlo in quei 50 e più giorni, dove lui stesso si definiva “un morto che camminava” dopo l’uccisione del suo amico e collega Falcone. Fino a quel 19 luglio.
Era il 19 luglio, alle ore 16:59, quando una Fiat 126 rubata contenente circa 90 kg di esplosivo telecomandati a distanza, venne fatta esplodere in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitavano la madre e la sorella di Paolo Borsellino. Una giornata come tutte le altre e, essendo domenica, il giudice aveva deciso di recarsi da sua madre per una visita.
La mafia lo sapeva ed aveva deciso di ucciderlo, allo stesso modo di come, solo due mesi prima, aveva fatto con l’altro magistrato, l’amico più caro di Borsellino, Giovanni Falcone.
Un’esplosione che provocò l’inferno: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo […] Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto” – ha raccontato, nella ricostruzione fatta, l’unico sopravvissuto della strage, l’agente di Polizia Antonino Vullo.
Il calore, le fiamme, l’odore di morte, e il giudice Borsellino insieme a 5 agenti di scorta lì morti. Borsellino se lo sentiva: dopo la morte di Falcone, il prossimo obiettivo era lui. Le loro indagini avevano portato alla luce gli intrighi e le affiliazioni che c’erano fra la mafia e lo Stato, e non solo in Sicilia.
La paura c’era nel cuore di Borsellino, e anche la voglia bramosa della mafia di toglierlo da mezzo, convinti che quel tipo di indagini non avrebbe dato più fastidio.
Ma oggi, dopo 30 anni, quella voglia di giustizia che avevano Falcone e Borsellino non si è spenta, anzi. Va avanti sempre e comunque. Le nuove generazioni, in particolare, oggi ricordano e portano avanti progetti di legalità e speranza nel nome di due persone che, per la giustizia, hanno donato la vita.
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