La rivelazione del campione Paolo Rossi, da poco scomparso: da giovane aveva pensato di entrare in seminario. Il racconto in una recente intervista.
“Sono cresciuto in mezzo ai preti e ho fatto un pensierino anche al seminario”, rivelò. Il campione di Italia ’82 insomma non solo aveva un afflato religioso, ma ha pensato a un certo punto di dedicare la sua intera vita al Signore. Tra un calcio e l’altro tirato al pallone nel campetto dell’oratorio di Santa Lucia, a Prato.
In una recente intervista rilasciata al settimanale Credere, Rossi ha raccontato di come fin da piccolo crebbe proprio in chiesa. “La parrocchia era il principale luogo di aggregazione”, spiegava Rossi, rivelando di avere “scoperto la passione per il calcio proprio lì: a 10 anni giocavo nella squadra messa in piedi da don Sandro”.
“Di fatto sono cresciuto in mezzo ai preti ed è stato quasi naturale avere la curiosità di vedere come fosse un seminario: cosa facevano, com’erano le giornate. Non avevo la vocazione al sacerdozio ma ho voluto fare, diciamo così, una piccola prova, dettata dalla simpatia che provavo verso quel mondo. Così ho frequentato il seminario per una settimana, ma mi è stato subito chiaro che non era la mia strada”.
Lì, all’oratorio, poteva esibire le sue doti da goleador nella squadra messa in piedi da don Sandro Bertasa. Quello fu il suo trampolino di lancio, il luogo in cui si originò la passione per il campo verde, che lo portò a militare nella Cattolica Virtus, a Firenze, presso la Comunità giovanile San Michele. Dove ad accoglierlo c’erano altri due sacerdoti: don Mario Lupori e don Ajmo Petracchi.
Questo secondo, negli anni, resterà per sempre suo grande amico e confidente. “Don Sandro giocava con noi, si rimboccava la tonaca e calciava. Don Ajmo no, non l’ho mai visto toccare un pallone”, sono le parole di Rossi, quando ricordava quei momenti indelebili, riportate dal quotidiano dei vescovi italiani Avvenire.
“Quello alla Cattolica è stato per me un periodo importante di cui ho un ottimo ricordo”, spiegava “Pablito”. “Era un ambiente gestito molto bene sia dal punto di vista professionale che dei rapporti umani. La Cattolica è sempre stata una società modello, che guardava non solo all’aspetto sportivo, ma anche alla formazione e alla crescita dei ragazzi“.
Quel periodo della sua vita lo caratterizzò dai 12 ai 16 anni. Poi, nel 1972, mise gli occhi sul suo talento la Juventus, che se lo aggiudicò versando una cifra molto importante, all’epoca, per un giocatore della sua tenera età. Il club torinese pagò infatti ben 20 milioni di lire. Cifra molto alta richiesta dal papà Vittorio, che sotto sotto sperava in un rifiuto della squadra. Così Paolo sarebbe passato alla sua amata Fiorentina, storica rivale dei bianconeri.
La Juventus rispose però accettando la richiesta. Da un giorno all’altro arrivò un semplice fax. Era la strada che avrebbe portato Rossi a diventare un’icona per milioni di giovani, con le sue prodezze nel club più blasonato del Paese. In tutto ciò, però, Paolo non abbandonò mai l’amicizia con don Petracchi, che al contrario si rafforzò di anno in anno.
Don Ajmo celebrò anche il suo matrimonio, a Vicenza. Poi lo abbandonò nel 2001, anno della morte del sacerdote. Rossi racconta del suo rapporto molto intenso con il sacerdote, che nel momento della sua partenza dal paese natale, continuò a scrivergli. “Per cui, anche vedendoci poco, la sua è stata per me una presenza costante”, commenta Rossi.
“Nelle lettere mi ricordava sempre da dove arrivavo, chi fossi e di non lasciarmi prendere dal successo e dalla popolarità. Questo è stato per me importante. In qualche modo mi ha sempre tenuto con i piedi per terra. Mi spiegava anche che io avevo una grandissima responsabilità perché tutto quello che facevo e dicevo veniva amplificato diventando io un esempio per gli altri”.
Paolo Rossi ricorderà il sacerdote come persona umana, colta, intelligente e sensibile. Insomma, un uomo di Dio, che mantenne saldo il contatto del campione con il cielo, nonostante le tante vittorie su questa terra, precisamente sul rettangolo verde della serie A. “I suoi consigli, che di volta in volta metabolizzavo, mi sono serviti per muovermi in un ambiente non facile come quello del calcio”, spiegava di recente Rossi, commentando una pubblicazione sul sacerdote scomparso.
Dando così la testimonianza del rapporto stretto tra il sudore dei campi di calcio, la gioia di segnare un goal, o di vincere il mondiale, e la presenza del Signore nella vita di chi si affida a Lui, che non fa mai mancare la vittoria più importante: quella di sentirsi amati da Lui, e di ricevere la Sua grazia dall’alto dei cieli.
D’altronde, lo spiegava lo stesso Rossi a Credere, sottolineando che sono state la fede e la famiglia a permettergli di restare con i piedi ancorati a terra, nonostante i grandi successi professionali. “Sono state decisive l’educazione ricevuta, così come la fede e la mia famiglia, che ho sempre vissuto come un porto sicuro. Inoltre sono sempre stato convinto che il successo fosse una cosa effimera“, affermava Rossi.
“Per carità, ho raggiunto dei risultati importanti, sono stato molto gratificato dal mio lavoro e ho vinto tutto quello che potevo vincere, ma alla fine trovavo sempre molta più soddisfazione nell’uscire con gli amici, nel vivere il rapporto con la famiglia e con mia moglie. Queste sono le cose salde, solide, che tengono nel tempo: questa è la felicità vera. Il successo e la fama sono cose bellissime, che esplodono in modo fragoroso e si spengono altrettanto velocemente. La strada che ti porta alla felicità è un’altra ed è quotidiana“.
“La mia era una generazione dove i valori cristiani erano ancora importanti: facevano parte integrante della nostra cultura e permeavano i nostri comportamenti”, affermava Rossi. “Personalmente la fede mi ha aiutato molto, soprattutto nei momenti di difficoltà. Non sono un bigotto ma credo fermamente che siamo di passaggio su questa Terra e che tutto non si esaurisce dopo la morte“.
Giovanni Bernardi
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