Diventare sacerdote non equivale a intraprendere una “carriera ecclesiastica” ma ad iniziare un servizio, come quello reso da Dio al suo popolo.
Lo ha detto papa Francesco, rivolto ai nove diaconi ordinati oggi nella Basilica di San Pietro. Ai novelli presbiteri, il Pontefice ha ribadito i tre capisaldi dello “stile di Dio”: la “vicinanza”, la “compassione” e la “tenerezza”.
Nel presbiterato, ha detto, la “vicinanza” può, a sua volta, manifestarsi in quattro modi diversi. In primo luogo, c’è la “vicinanza a Dio”, nella “preghiera”, nei “sacramenti” e nella “messa”. Un prete che non prega “spegne il fuoco dello spirito che ha dentro”, ha affermato il Santo Padre.
Il secondo tipo di vicinanza è con il “vescovo”, del quale tutti i sacerdoti dovrebbero essere “non dico servitori” ma quantomeno “collaboratori”. Qualunque parroco “nei momenti brutti chiama il vescovo” e deve farlo anche quando questi “non gli piace” o lo “tratta male”.
La vicinanza si esprime anche tra sacerdoti. Regola fondamentale, ha rammentato il Papa, è: “mai sparlare di un fratello sacerdote”. Se un comportamento non convince, “ditelo in faccia”, ha raccomandato Francesco agli ordinandi. Se poi, l’argomento è particolarmente delicato, l’invito è a parlarne col “vescovo, che ti aiuta”. Mai, però, bisogna “cadere nel pettegolezzo”.
La quarta forma di vicinanza che un sacerdote può esprimere è con il “santo popolo fedele di Dio”. Sebbene in seminario si studino “le scienze ecclesiastiche” che la Chiese prescrive, non ci sono “studi” specifici per diventare sacerdote, ha sottolineato Bergoglio, perché l’elezione a sacerdote viene esclusivamente da Dio.
A Davide, Dio dice: “Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge” (Sam 7,8). Ogni sacerdote, dunque, non deve perdere il “fiuto del popolo di Dio” da dove proviene, ha aggiunto il Santo Padre, raccomandando agli ordinandi di diventare “sacerdoti di popolo” e non “chierici di stato”.
C’è poi la virtù della compassione, che il buon pastore esercita con le proprie pecore. “Quando la gente viene a condividere i problemi, perdete tempo ascoltando e consolando”, ha detto il Pontefice. “La compassione porta al perdono e alla misericordia”, quindi, ha esortato, “siate ‘perdonatori’, perché Dio perdona tutto”. Tutti i sacerdoti, ha aggiunto il Vescovo di Roma, dovrebbero esprimere una “compassione tenera”, una “compassione di fratelli e di padri”, che “fa essere figli di Dio”.
Il Papa ha quindi messo in guardia i novelli sacerdoti dal pericolo della “vanità dei soldi”, poiché il “diavolo entra dalle tasche”. Un sacerdote non deve mai perdere la “vicinanza al popolo”, per ridursi ad essere un “imprenditore della parrocchia”.
Al tal proposito Francesco ha raccontato un episodio che lo ha particolarmente commosso: un sacerdote di sua conoscenza, “molto intelligente” e “molto pratico”, aveva iniziato a gestire la sua parrocchia con piglio ‘manageriale’. Un giorno, poi, aveva “sgridato” uno dei suoi dipendenti, un uomo piuttosto anziano, che, addolorato da quell’episodio “è morto”. Chiamato a “diventare sacerdote”, quel parroco si era trasformato in un “imprenditore spietato”.
A conclusione dell’omelia, Bergoglio ha raccomandato di cercare la “consolazione in Gesù”, poiché “Gesù consola i pastori”, e di consegnare le proprie “croci” nelle mani “di Gesù e della Madonna”. “Se avrete lo stile di Dio e sarete vicini tra voi, non abbiate paura, perché tutto andrà bene”.
La Santa Messa per le ordinazioni sacerdotali è stata concelebrata dal Papa, assieme al cardinale vicario Angelo De Donatis, al vicegerente della Diocesi di Roma, monsignor Giampiero Palmieri e a tutti i vescovi ausiliari.
I novelli sacerdoti sono: Georg Marius Bogdan, Salvatore Marco Montone, Manuel Secci, Diego Armando Barrera Parra, Salvatore Lucchesi, Giorgio Iuri (formatisi al Pontificio Seminario Maggiore), Riccardo Cendamo, Samuel Piermarini (formatisi al Collegio Diocesano Redemptoris Mater) e Mateus Henrique Ataide da Cruz (formatisi al Seminario della Madonna del Divino Amore).
Il buon pastore “salva” le sue pecore “in tante situazioni difficili, pericolose, mediante la luce della sua parola e la forza della sua presenza, che sperimentiamo specialmente nei Sacramenti”.
Inoltre, “conosce” le sue pecore, non come “massa” o “moltitudine”, ma ad una ad una: “Solo Lui sa che cosa c’è nel nostro cuore, le intenzioni, i sentimenti più nascosti”.
Infine, il buon pastore “ama” le sue pecore, in quanto “dà la vita per loro” (cfr Gv 10,15), in modo non “selettivo” ma abbracciando tutti.
Luca Marcolivio
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