Chi perde la speranza finisce nella disperazione e fa “cose brutte”: impariamo dai poveri e dagli emarginati a sperare, rimanendo vicini a chi si sente abbattuto dal “peso della vita” e non riesce a “sollevarsi”. Così il Papa all’udienza generale in Aula Paolo VI, proseguendo il ciclo delle catechesi sulla speranza cristiana e soffermandosi sulla fonte del conforto reciproco e della pace. Il servizio di Giada Aquilino:
A sperare è chi sperimenta ogni giorno la precarietà
Sono gli ultimi delle nostre società che ci insegnano a sperare, perché “nessuno” impara a farlo “da solo”. All’udienza generale, riallacciandosi alla Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, Papa Francesco chiarisce che la speranza, “per alimentarsi”, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, di una “dimora naturale”, cioè la Chiesa: la speranza cristiana, spiega, non ha solo un respiro personale, individuale, ma “comunitario, ecclesiale”: le varie “membra” – continua il Pontefice – si sostengono e si ravvivano “a vicenda”. E, se speriamo, è perché “tanti nostri fratelli e sorelle” hanno tenuto “viva” per noi la speranza:
“Tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e quello non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto … A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite”.
La misericordia del Padre
Questi fratelli, evidenzia Francesco, danno la testimonianza “più bella, più forte”, perché rimangono “fermi” nell’affidamento al Signore:
“Al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno questa parola: ‘Vieni, vieni da me, fratello; vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità’”.
La vicinanza della Chiesa verso chi è scoraggiato
L’invito è a porre l’attenzione sui fratelli che rischiano maggiormente di perdere la speranza: abbiamo “sempre” notizie, osserva il Papa, di gente “che cade nella disperazione e fa cose brutte”:
“La ‘dis-speranza’ li porta a tante cose brutte… Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è avere pietà: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a quello che soffre … una parola, una carezza, ma che venga dal cuore: quella è la compassione! Hanno bisogno del conforto e della consolazione”.
Mai ricambiare il male col male
Ciò è quanto mai “importante”, perché la speranza cristiana “non può fare a meno” della carità genuina e concreta. Come spiega l’Apostolo delle genti nella Lettera ai Romani, sono i “forti” – che hanno fede, speranza o non hanno “tante difficoltà”, dice il Papa – ad avere il dovere di “portare le infermità dei deboli”, senza compiacersi.
“Portare le debolezze altrui. Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono: il cristiano mai può dire: me la pagherai. Mai! Questo non è un gesto cristiano! L’offesa si vince con il perdono; a vivere in pace con tutti. Questa è la Chiesa!”.
Sostenersi a vicenda
Ed è anche, continua Francesco, ciò che opera la speranza cristiana, “quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore”, perché esso è “forte e tenero”. Il Papa esorta dunque, nelle nostre comunità, a sostenersi a vicenda:
“Aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza”.
Lo Spirito Santo è l’anima della speranza
Tocca in primis a coloro ai quali “è affidata la responsabilità e la guida pastorale”, non perché – puntualizza il Pontefice – “siano migliori degli altri”, ma in forza di un ministero divino che va “ben al di là” delle loro forze: hanno perciò “bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo” di tutti. Quindi Francesco ricorda che il “soffio vitale”, l’anima della speranza è lo Spirito Santo: senza invocarlo, “non si può avere speranza”:
“Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. E’ più difficile sperare che credere! E’ più difficile. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità, in una perenne Pentecoste, come segni vivi di speranza per la famiglia umana”.
Gli appelli
Negli appelli finali, Francesco ricorda che sabato prossimo, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, ricorrerà la 25.ma Giornata Mondiale del Malato, mentre ieri a Osaka, in Giappone, è stato proclamato Beato il martire Justo Takayama Ukon, “mirabile esempio di fortezza nella fede e di dedizione nella carità”. Quindi un pensiero per gli sposi novelli, incitandoli a confidare non solo nelle capacità personali ma soprattutto “nell’aiuto della Provvidenza”:
“Il matrimonio senza l’aiuto di Dio non va avanti. Dobbiamo chiederlo tutti i giorni”.
fonte: radiovaticana
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