La tentazione della sopravvivenza può rendere sterile la vita consacrata. Lo ricorda il Papa nell’omelia della Messa celebrata, ieri pomeriggio, con i membri degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica nella Basilica Vaticana. L’occasione è offerta dalla Festa della Presentazione del Signore e dalla XXI Giornata mondiale della Vita Consacrata. Francesco chiede ai religiosi e alle religiose di aiutare i fratelli a “portare la croce” perché il mondo è ferito e supplica di risuscitare. Il servizio di Debora Donnini:
I religiosi e le religiose dei diversi Istituti entrano insieme in processione con le candele accese, benedette dal Papa, che illuminano la Basilica Vaticana immersa nel buio. E il loro canto sembra richiamare il canto di lode innalzato da Simeone e Anna quando vedono il piccolo Gesù, portato da Maria e Giuseppe al tempio per presentarlo al Signore.
Mettersi con Gesù in mezzo al suo popolo: farsi carico del mondo ferito
Papa Francesco intesse dunque la sua omelia sul Vangelo proclamato. A suscitare il loro canto, dice il Papa, è stata “la speranza” realizzata nell’incontro con Gesù:
“Sì, solo questo potrà restituirci la gioia e la speranza, solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di sopravvivenza. Solo questo renderà feconda la nostra vita e manterrà vivo il nostro cuore. Mettere Gesù là dove deve stare: in mezzo al suo popolo”.
Nella “trasformazione mutliculturale” in corso, i consacrati devono dunque essere inseriti nel cuore di queste grandi trasformazioni, essere lievito di questa massa, secondo il proprio carisma particolare, mettendo mano all’aratro per far crescere il grano tante volte seminato in mezzo alla zizzania. Per fare questo, il Papa chiede di non cadere in atteggiamenti difensivi, mossi dalle paure:
“Mettere Gesù in mezzo al suo popolo significa avere un cuore contemplativo, capace di riconoscere come Dio cammina per le strade delle nostre città, dei nostri paesi, dei nostri quartieri. Mettere Gesù in mezzo al suo popolo significa farsi carico e voler aiutare a portare la croce dei nostri fratelli. E’ voler toccare le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo, che è ferito e brama e supplica di risuscitare. Metterci con Gesù in mezzo al suo popolo!”.
Un atteggiamento però non da portare avanti come “attivisti della fede”, ma come uomini e donne “continuamente perdonati”, che condividano “la consolazione di Dio con gli altri”.
La tentazione della sopravvivenza priva i carismi della forza creativa
Francesco si sofferma anche sulla “tentazione della sopravvivenza” che può “installarsi a poco a poco dentro di noi, in seno alle nostre comunità”, dice. Un atteggiamento che fa diventare “reazionari”, “paurosi”, che proietta all’indietro verso le gesta gloriose ma passate, che invece di suscitare “la creatività profetica” dei fondatori, fa sfuggire alle sfide di oggi:
“La psicologia della sopravvivenza toglie forza ai nostri carismi perché ci porta ad addomesticarli, a renderli ‘a portata di mano’ ma privandoli di quella forza creativa che essi inaugurarono; fa sì che vogliamo proteggere spazi, edifici o strutture più che rendere possibili nuovi processi. La tentazione della sopravvivenza ci fa dimenticare la grazia, ci rende professionisti del sacro ma non padri, madri o fratelli della speranza che siamo stati chiamati a profetizzare”.
In sostanza la “tentazione della sopravvivenza” trasforma in minaccia ciò che è un’opportunità per la missione. Un rischio che non riguarda solo la vita consacrata.
Portare avanti con coraggio il sogno dei fondatori
A proteggere da questa tentazione, è proprio la memoria di come “sognarono” le madri e i padri fondatori e il coraggio per portare avanti questo sogno. E i consacrati sono chiamati ad essere “eredi della speranza” dei fondatori. Simeone e Anna testimoniano infatti cantando che “la vita merita di essere vissuta con speranza perché il Signore mantiene la sua promessa”:
“Ci fa bene accogliere il sogno dei nostri padri per poter profetizzare oggi e ritrovare nuovamente ciò che un giorno ha infiammato il nostro cuore. Sogno e profezia insieme. Memoria di come sognarono i nostri anziani, i nostri padri e madri e coraggio per portare avanti, profeticamente, questo sogno”.
No quindi a “lamento” o “agitazione”, ma lode e pazienza per accompagnare Gesù “ad incontrarsi con il suo popolo”.
fonte: radiovaticana
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