Il Parent Involvement è l’insieme delle numerose disposizioni, secondo cui i genitori devono esser resi partecipi della vita scolastica dei propri figli.
Negli ultimi decenni, si è cercato di rendere possibile, disciplinarmente ed educativamente parlando, una sorta di collaborazione attiva tra la famiglia e la scuola, in modo che, entrambe le agenzie educative, contribuissero all’efficacia dei metodi formativi, per i bambini e i ragazzi.
Sembra, però, che qualcosa non abbia funzionato, che questa co-partecipazione abbia finito per confondere responsabilità ed interventi, creando una sorta di diatriba casa-scuola.
Le modalità sono divenute troppo soffocanti e limitanti per il raggio di azione degli allievi, continuamente controllati.
Soprattutto, l’introduzione della tecnologia più recente, anche nelle scuole, con i gruppi Whatsapp dei genitori e i continui aggiornamenti sul rendimento scolastico dei figli, le loro assenze e la loro condotta in classe, hanno provocato un effetto maniacale di controllo, del tutto infruttuoso, per tutte le parti in causa.
Pare proprio, allora, che sia il caso di fare dei passi indietro. Lo dice anche un noto e ponderato studio americano, attestante che, con questi provvedimenti, gli allievi non migliorano, poiché genitori e insegnanti risultano invasivi, a più riprese.
I due sociologi Keith Robinson e Angel L. Harris hanno reso noto, a tale proposito, il risultato di una lunga indagine in merito, durata qualche anno, in cui si afferma: “La maggior parte delle forme di coinvolgimento dei genitori, come osservare i corsi dei figli, contattare la scuola per sapere come si comportano, aiutarli a decidere il loro percorso scolastico o dargli una mano a fare i compiti a casa, non migliorano i loro risultati. Anzi, in qualche caso addirittura li ostacolano”.
Anche in Italia sta avvenendo la stessa cosa, nonostante le tante norme in materia di Parent Involvement, che definiscono chiaramente gli ambiti di intervento degli insegnati nei confronti dei genitori e viceversa, sull’argomento educazione e formazione dei figli/allievi.
Forse, c’è da considerare un problema di fiducia/affidamento, che non sembra volersi attuare e contrasta con tutti gli studi e gli intenti pedagogici dell’ultimo secolo, che si prefissavano di educare alla libertà e all’autodeterminazione del bambino e del ragazzo in formazione.
Anche lo psicologo John Rosemond rifletteva: “Perché i giovani di oggi si emancipano dalla famiglia molto più tardi di quanto facessero nel 1970, quando l’età media dell’emancipazione maschile era 21 anni (nel 2004 era 30, nel 2020 sarà 38)?
Perché moltissimi insegnanti si lamentano del fatto che i genitori dei loro alunni li accusano degli scarsi risultati dei loro figli?
Perché la stabilità psicologica dei bambini di oggi è molto più flebile di quella degli anni Sessanta? Perché la fobia della scuola, l’ansia da risultati e quella da separazione sono diventati negli ultimi anni un problema, quando fino a 50 anni fa non esistevano neppure?
Perché i genitori di oggi hanno un atteggiamento protettivo, quando i professori gli dicono che i loro figli si sono comportati male? La risposta sta in due parole: parent involvement”.
Sono queste domande complesse, a cui è difficile dare una risposta esaustiva, che metta tutti d’accordo. Ma riflettere su queste problematiche, e azzardare un’ipotesi risolutiva, potrebbe essere un servizio utilissimo alla società e alle sue nuove leve.
Il Parent Involvement è l’insieme delle numerose disposizioni, secondo cui i genitori devono esser resi partecipi della vita scolastica dei propri figli.
Negli ultimi decenni, si è cercato di rendere possibile, disciplinarmente ed educativamente parlando, una sorta di collaborazione attiva tra la famiglia e la scuola, in modo che, entrambe le agenzie educative, contribuissero all’efficacia dei metodi formativi, per i bambini e i ragazzi.
Sembra, però, che qualcosa non abbia funzionato, che questa co-partecipazione abbia finito per confondere responsabilità ed interventi, creando una sorta di diatriba casa-scuola.
Le modalità sono divenute troppo soffocanti e limitanti per il raggio di azione degli allievi, continuamente controllati.
Whatsapp a scuola per il Parent Involvement
Soprattutto, l’introduzione della tecnologia più recente, anche nelle scuole, con i gruppi Whatsapp dei genitori e i continui aggiornamenti sul rendimento scolastico dei figli, le loro assenze e la loro condotta in classe, hanno provocato un effetto maniacale di controllo, del tutto infruttuoso, per tutte le parti in causa.
Pare proprio, allora, che sia il caso di fare dei passi indietro. Lo dice anche un noto e ponderato studio americano, attestante che, con questi provvedimenti, gli allievi non migliorano, poiché genitori e insegnanti risultano invasivi, a più riprese.
I due sociologi Keith Robinson e Angel L. Harris hanno reso noto, a tale proposito, il risultato di una lunga indagine in merito, durata qualche anno, in cui si afferma: “La maggior parte delle forme di coinvolgimento dei genitori, come osservare i corsi dei figli, contattare la scuola per sapere come si comportano, aiutarli a decidere il loro percorso scolastico o dargli una mano a fare i compiti a casa, non migliorano i loro risultati. Anzi, in qualche caso addirittura li ostacolano”.
Anche in Italia sta avvenendo la stessa cosa, nonostante le tante norme in materia, che definiscono chiaramente gli ambiti di intervento degli insegnati nei confronti dei genitori e viceversa, sull’argomento educazione e formazione dei figli/allievi.
Forse, c’è da considerare un problema di fiducia/affidamento, che non sembra volersi attuare e contrasta con tutti gli studi e gli intenti pedagogici dell’ultimo secolo, che si prefissavano di educare alla libertà e all’autodeterminazione del bambino e del ragazzo in formazione.
Le domande senza risposta
Anche lo psicologo John Rosemond rifletteva: “Perché i giovani di oggi si emancipano dalla famiglia molto più tardi di quanto facessero nel 1970, quando l’età media dell’emancipazione maschile era 21 anni (nel 2004 era 30, nel 2020 sarà 38)?
Perché moltissimi insegnanti si lamentano del fatto che i genitori dei loro alunni li accusano degli scarsi risultati dei loro figli?
Perché la stabilità psicologica dei bambini di oggi è molto più flebile di quella degli anni Sessanta? Perché la fobia della scuola, l’ansia da risultati e quella da separazione sono diventati negli ultimi anni un problema, quando fino a 50 anni fa non esistevano neppure?
Perché i genitori di oggi hanno un atteggiamento protettivo, quando i professori gli dicono che i loro figli si sono comportati male? La risposta sta in due parole: parent involvement”.
Sono queste domande complesse, a cui è difficile dare una risposta esaustiva, che metta tutti d’accordo. Ma riflettere su queste problematiche, e azzardare un’ipotesi risolutiva, potrebbe essere un servizio utilissimo alla società e alle sue nuove leve.
Antonella Sanicanti