Si parla spesso di perdita del “senso del peccato”. In effetti al giorno d’oggi pochi amano riconoscersi colpevoli di qualcosa. C’è piuttosto la gara a dichiararsi vittime di qualcuno.
Un espediente questo per guadagnarsi lo status della “vittima” intoccabile, la sola a poter vantare unicamente diritti. Primo fra tutti quello al piagnisteo e alla recriminazione a ciclo continuo contro la società.
Sparito il senso del peccato? In un certo senso sì, ma anche no
D’altro canto non è che il senso del peccato sia proprio sparito. Diciamo piuttosto che è uscito dalla porta ed è rientrato dalla finestra. Ma sotto vesti differenti, che poco hanno a che vedere con Gesù Cristo. Una volta il cardinale Giacomo Biffi ha detto: «L’odierno imperversare delle accuse di tutti contro tutti e l’infittirsi delle denunce in tutti i campi testimonia che oggi c’è un fortissimo “senso del peccato”: c’è un fortissimo “senso del peccato altrui”, che non è quello di cui parlava Gesù».
Motivo per cui, sottolineava il cardinale e arcivescovo di Bologna, al giorno d’oggi «pare che non ci sia più la “fame di perdono”». Oggi va forte recitare il vestra culpa, non il mea culpa. Se si batte un petto, è sempre quello degli altri: i soli ai quali si chiede – a volte pretendendolo pure – di domandare perdono. Chiedere perdono per se stessi, invece, pare semplicemente non essere un’opzione concepibile. Non sia mai!
La vera differenza tra il fariseo e il pubblicano
In pratica: se non si vede più il proprio peccato, in compenso si vede benissimo il peccato altrui. È un po’ quel che succede nella celebre parabola del fariseo e del pubblicano raccontata da Luca (18,9-14). Come faceva osservare l’allora cardinale Joseph Ratzinger in una bellissima meditazione sulla coscienza, la differenza tra il fariseo e il pubblicano non sta tanto nel fatto che il primo giudica e il secondo si batte il petto. Il punto è la diversa unità di misura che adottano i due protagonisti della parabola.
Il fariseo si misura col prossimo perché la sua unità di misura è il proprio «io». Pesa sé stesso secondo una misura che rimane pur sempre umana, sociale. L’ego è il suo ordine di grandezza. Per questo ha bisogno di fare paragoni con gli altri uomini. Trovandoli tutti, inesorabilmente, peggiori di sé. «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano»
Il pubblicano, viceversa, ha la santità di Dio come unità di misura. Non pesa sé stesso confrontandosi con gli altri uomini – tutti inevitabilmente peccatori, in misura variabile – ma con l’infinita misura divina. Da qui nasce il sentimento della distanza infinita tra la creatura e il Creatore: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore!».
La voglia di misurarsi col prossimo è dunque la quintessenza del farisaismo, sempre alla ricerca di rivali da sovrastare. È un’ottica di competizione, mai di comunione.
Corrotti e peccatori
Papa Francesco direbbe che è la differenza tra un corrotto e un peccatore. Il corrotto nemmeno si accorge più di avere dei peccati. In compenso ha un senso acutissimo per il peccato altrui.
Un concetto ripetuto anche da quel grande maestro che è stato il vescovo Fulton Sheen. Nel quinto capitolo («Morbosità e negazione della colpa») del suo La pace dell’anima, il presule americano fa osservare che nel mondo contemporaneo si è cercato, attraverso una psicologia materialista, di ridurre l’uomo a un animale e al tempo stesso di “liberarlo” dal senso di colpevolezza, considerato una morbosità. Che è quanto dire una malattia pericolosa.
Insomma, sarebbe l’idea del peccato a rendere anormali o malati. Così l’obiettivo sembra essere, scrive Fulton Sheen, quello di fare «di tutti gli uomini altrettante brave persone (nice guys) soddisfatte della loro liberazione dalla colpa o dal peccato. Con un colpo di bacchetta magica, il mondo sarebbe liberato dalla gente malvagia, cioè da coloro che riconoscono di essere peccatori».
Quando essere «brave persone» è sconsigliabile…
Il problema è che queste «brave persone» somigliano spaventosamente al fariseo della parabola. Negare il peccato è come negare di aver bisogno di essere guariti da Qualcuno. Accettare la filosofia che nega il peccato o la colpa personale invece porta a preoccuparsi soltanto della propria immagine nella società, a curarsi solo della propria reputazione. Al massimo si può provare vergogna, non senso di colpa. Peccare si può, dunque, basta non essere scoperti, basta che il peccato non diventi pubblico.
Ma negando il proprio peccato, ci ricorda il vescovo Sheen, la «brava persona» si preclude la via della guarigione. Tanto è vero che Gesù, nel Vangelo, è mosso all’invettiva da questa sorta di bontà pretenziosa che sta bene attenta a evitare solo i peccati condannati dalla società. Ma soltanto perché, ribadiamo, la sua rispettabilità sociale ne verrebbe irrimediabilmente guastata (come accade a ladri, assassini, ubriaconi, prostitute, ecc., tutti raggiunti da un marchio d’infamia).
… e meno ancora puntellare un finto ordine
Idolatrare una parvenza di ordine esteriore è anche la caratteristica tipica di quelli che lo scrittore Graham Greene chiama i «partigiani dell’ordine»: coloro che si impegnano con tutte le loro forze a mantenere in piedi un «ordine» solo apparente. Il che per Greene ne fa gli ausiliari più fedeli del diavolo, perché un finto ordine è un inganno perfino peggiore del disordine manifesto.
Da qui l’odio feroce che le «brave persone» e i «partigiani dell’ordine» riservano a chi, come Gesù, si azzarda a strappare dal loro volto la maschera della falsa bontà. Per questo, insiste Fulton Sheen, il rifiuto di riconoscersi peccatori è davvero un pericolo mortale. «Se il cieco nega di essere cieco, come potrà mai vedere? Il peccato veramente imperdonabile è la negazione del peccato, poiché, naturalmente, non rimane più nulla da perdonare. Rifiutando di ammettere la colpa personale, le brave persone diventano maldicenti, pettegole, ipercritiche, perché debbono proiettare sugli altri la loro colpa. Il che le colma di una nuova illusione di bontà: quanto più si trova a ridire sul prossimo, tanto più si nega il peccato».
Il senso di colpa? Senza ci si ammala
Ecco perché, come diceva il futuro Benedetto XVI, citando lo psicologo Albert Görres, «il senso di colpa, la capacità di riconoscere, è parte essenziale dell’economia psichica dell’uomo: il senso di colpa che lacera la falsa tranquillità della coscienza, potremmo dire la coscienza soddisfatta di sé, è necessario all’uomo come il dolore fisico che segnala i disturbi delle normali funzioni vitali».
C’è dunque un senso di colpa sano – come ce n’è anche uno assolutamente malsano, che fa vedere colpe che non esistono, ma ci ritorneremo – senza il quale l’uomo si abbruttisce. Per questo, prosegue Ratzinger, «chi non è più capace di vedere la colpa è psichicamente malato, un “cadavere vivente, una maschera teatrale”, come dice Görres. “Fra coloro che non hanno sensi di colpa vi sono i bruti, i mostri: forse Hitler, Himmler, Stalin non ne avevano. Forse i capimafia non ne hanno, ma presumibilmente i loro cadaveri sono soltanto ben chiusi in cantina. Anche i sensi di colpa rimossi… Tutti gli uomini hanno bisogno dei sensi di colpa”».
Attenzione ai falsi profeti e alle «brave persone» (soprattutto a non diventare tali)
Attenzione dunque ai falsi profeti che invitano a bandire dal mondo il senso del peccato. E non sarà cosa malvagia cominciare a diffidare anche delle «brave persone». Vi accorgerete che hanno delle abitudini poco rassicuranti: come quella di puntare il dito contro i «cattivi» e di andare sempre alla ricerca di capri espiatori.
Ma al tempo stesso teniamo bene a mente una cosa: cioè che senza chiedere in ginocchio la grazia di Dio ciascuno di noi, presto o tardi, è destinato a far parte del coro di queste «brave persone» impegnate a fare un minuzioso catalogo delle pagliuzze altrui. Ignorando sistematicamente la propria trave però.