La risurrezione di Lazzaro (da 548.6 a 548.13)
Gesù, molto curvo per raccogliere queste parole mormorate con la faccia al suolo, si rialza e dice forte: “Maria, non piangere! Anche il tuo Maestro soffre per la morte dell’amico fedele… per averlo dovuto lasciar morire….”
Oh! che sogghigno e che sguardi di livido giubilo sono sui volti dei nemici di Cristo! Lo sentono vinto, e gioiscono, mentre gli amici si fanno sempre più tristi.
Gesù dice ancora più forte: ” Ma Io ti dico: non piangere. Alzati! Guardami! Credi tu che Io che ti ho tanto amata, abbia fatto questo senza motivo? Puoi credere che Io ti abbia dato questo dolore inutilmente? Vieni. Andiamo da Lazzaro. Dove lo avete posto?”
Gesù, più che Maria e Marta, che non parlano, prese come sono da un pianto più forte, interroga tutti gli altri, specie quelli che usciti di casa con Maria sembrano i più turbati. Forse sono parenti più anziani, non so. E questi rispondono a Gesù, visibilmente afflitto: “Vieni e vedi” e si avviano verso il luogo del sepolcro che è ai termini del frutteto, là dove il suolo ha delle ondulazioni e delle vene di roccia calcarea che affiorano dal suolo.
Marta, che è al fianco di Gesù che ha forzato Maria ad alzarsi e che la guida, perchè essa è acciecata dal gran pianto, indica con la mano a Gesù dove è Lazzaro, e quando sono presso al luogo dice anche: “E’ lì, Maestro, che il tuo amico è sepolto” e accenna alla pietra posta obliquamente sulla bocca del sepolcro.
Gesù per andare là, seguito da tutti, è dovuto passare davanti a Gamaliele. Ma nè Lui, nè Gamaliele si sono salutati. Gamaliele si è poi unito agli altri, fermandosi, come tutti i più rigidi farisei, a qualche metro dal sepolcro, mentre Gesù va avanti, molto vicino ad esso, insieme alle sorelle, Massimino e quelli che forse sono i parenti. Gesù contempla la pesante pietra che fa da porta al sepolcro e da ostacolo pesante fra Lui e l’amico estinto, e piange.
Il pianto delle sorelle aumenta, e così quello degli intimi e famigliari.
“Levate quella pietra” grida Gesù ad un tratto, dopo aver asciugato il suo pianto.
Tutti hanno un movimento di stupore e un mormorio scorre per l’assembramento che si è aumentato di alcuni betaniti che sono entrati nel giardino e si sono accodati agli ospiti. Vedo alcuni farisei che si toccano la fronte scuotendo il capo come per dire: “E’ pazzo!”
Nessuno eseguisce l’ordine. Anche nei più fedeli vi è della titubanza, della repulsione a farlo.
Gesù ripete più forte il suo ordine facendo sbigottire più ancora la gente che, presa da due sentimenti opposti, ha un movimento come per fuggire e subito dopo uno per accostarsi di più, per vedere, sfidando il prossimo fetore del sepolcro che Gesù vuole aperto.
“Maestro, non è possibile” dice Marta sforzandosi di trattenere il pianto per parlare. “Già da quattro giorni è là sotto. E Tu sai di che male è morto! Solo il nostro amore lo poteva curare… Ora certo egli puzza già fortemente nonostante gli unguenti… Che vuoi vedere? La sua putredine? … Non si può… anche per l’impurità della corruzione e…”
“Non ti ho detto che se crederai vedrai la gloria di Dio? Levate quella pietra. Lo voglio!”
E’ un grido di volere divino… Un “oh!” sommesso esce da tutti i petti. I volti sbiadiscono. Qualcuno trema come se fosse passato su tutti un vento gelido di morte.
Marta fa un cenno a Massimino, e questo ordina ai servi di prendere gli arnesi atti a smuovere la pietra pesante.
I servi vanno via lesti per tornare con picconi e leve robuste. E lavorano, insinuando le punte dei picconi lucenti, fra la roccia e la pietra, e poscia sostituendo i picconi con le leve robuste e infine sollevando attenti la pietra facendola scivolare da un lato e strascicandola poi cautamente contro la parete rocciosa. Un fetore ammorbante esce dal cunicolo scuro facendo arretrare tutti.
Marta chiede sottovoce: “Maestro, vuoi scendere là? Se sì, occorrono torce e…” Ma è livida al pensiero di doverlo fare.
Gesù non le risponde. Alza gli occhi al cielo, apre le braccia a croce e prega con voce fortissima, scandendo le parole: “Padre! Io ti ringrazio di avermi esaudito. Lo sapevo che tu mi esaudisci sempre. Ma l’ho detto per questi che sono qui presenti, per il popolo che mi circonda, perchè credano in Te, in Me, e che Tu mi hai mandato!”
Resta ancora così qualche momento, e pare rapito in un’estasi tanto è trasfigurato mentre senza più suono dice altre segrete parole di preghiera o di adorazione. Non so. Quello che so è che è così transumanato che non lo si può guardare senza sentirsi tremare il cuore in petto. Sembra farsi, da corpo, luce, spiritualizzarsi, alzarsi di statura, e anche da terra. Pur conservando i suoi colori di capelli, occhi, pelle, vesti, non come durante la trasfigurazione del Tabor durante la quale tutto divenne luce e candore abbagliante, pare emanare luce e tutto di Lui divenire luce. La luce pare fargli un alone intorno, specie intorno al volto levato al cielo, rapito in contemplazione certo del Padre.
Sta così qualche tempo, poi torna Lui: l’Uomo, ma di una maestà potente. Si avanza sino alla soglia del sepolcro. Sposta le braccia – che sino a quel momento aveva tenuto aperte a croce a palme volte al cielo – in avanti, a palme verso terra, e le mani sono perciò più dentro al cunicolo del sepolcro e biancheggiano nella nerezza che colma il cunicolo.
Egli sprofonda fuoco azzurro dei suoi occhi, il cui bagliore di miracolo è oggi insostenibile, in quella nerezza muta, e con voce potente, con un grido più forte di quando sul lago comandò al vento di cadere, con una voce quale in nessun altro miracolo gli ho sentito, grida: “Lazzaro! Vieni fuori!”
La voce si ripercuote per eco nel cavo sepolcrale e si spande uscendone poi per tutto il giardino, si ripercuote contro i dislivelli delle ondulazioni di Betania, io credo che vada sino alle prime balze collinose oltre i campi e di là torni, ripetuta e sommessa, come comando che non può cadere. Certo è che da infinite parti si riode: “fuori! fuori! fuori!”
Tutti hanno un più intenso brivido, e se la curiosità inchioda tutti ai loro posti, i volti sbiancano e gli occhi si spalancano mentre le bocche si socchiudono involontariamente con l’urlo dello stupore già nella strozza.
Marta, un poco indietro e di fianco, è come affascinata a guardare Gesù. Maria cade in ginocchio, lei che non si era mai scostata dal suo Maestro, cade in ginocchio sul limitare del sepolcro, una mano sul petto a frenare i palpiti del cuore, l’altra che inconsciamente e convulsamente tiene un lembo del mantello di Gesù e si capisce che trema perchè il mantello ha lievi scosse impresse dalla mano che lo tiene.
Un che di bianco pare emergere dal fondo profondo del cunicolo. Prima è appena una piccola linea convessa, poi si muta in un che di ovale, poi all’ovale si sottopongono linee più ampie, più lunghe, sempre più lunghe. E il già morto, stretto nelle sue fasce, viene avanti lentamente, sempre più visibile, fantomatico, impressionante.
Gesù arretra, arretra, insensibilmente, ma continuamente più quello avanza. La distanza fra i due è perciò sempre uguale.
Maria è costretta a lasciare il lembo del manto, ma non si muove da dove è. La gioia, l’emozione, tutto, l’inchiodano al posto dove era.
Un “oh!” sempre più netto, esce dalle gole chiuse prima da uno spasimo d’attesa, da sussurro appena distinto si muta in voce, da voce in grido potente.
Lazzaro è ormai sul limitare e si ferma là rigido, muto, simile ad una statua di gesso appena sbozzata, perciò informe, una lunga cosa, sottile nel capo, sottile nelle gambe, più larga nel tronco, macabra come la morte stessa, spettrale nel biancore delle fasce contro lo sfondo scuro del sepolcro. Al sole che lo investe le fasce appaiono qua e là già colanti putredine.
Gesù grida forte: “Scioglietelo e lasciatelo andare. Dategli vesti e cibo.”
“Maestro!..” dice Marta, e vorrebbe forse dire di più, ma Gesù la guarda fisso soggiogandola col suo fulgido sguardo e dice: “Qui! Subito! Portate una veste. Vestitelo alla presenza di tutti e dategli da mangiare.” Ordina e non si volge mai a guardare chi ha alle spalle e intorno. Il suo occhio guarda soltanto Lazzaro, Maria che è vicina al risorto, incurante del ribrezzo che dànno a tutti le bende marciose, e Marta che ansima come le scoppiasse il cuore e non sa se gridare la sua gioia o se piangere…
I servi si affrettano ad eseguire. Noemi corre via per prima, e per prima torna con le vesti che tiene a cavalcioni del braccio. Alcuni slegano i lacci delle fasce dopo essersi rimboccate le maniche e cinte le vesti perchè non tocchino la putredine colante. Marcella e Sara tornano con anfore di odori seguite da servi chi con catini e brocche fumanti d’acqua calde, e chi con vassoi, tazze colme di latte, e vino, frutta, focacce coperte di miele.
Le bende basse e lunghissime, di lino, mi pare, con le cimose ai due lati, certo tessute per quell’uso, si srotolano come rotoli di fettucce da una grande bobina e si accumulano al suolo, pesanti di aromi e di marciume. I servi le scansano usando dei bastoni. Hanno iniziato dal capo, eppure anche là è marciume certo scolato dal naso, dalle orecchie, dalla bocca. Il sudario messo sul volto è tutto zuppo di questi scoli e il volto di Lazzaro, che appare pallidissimo, scheletrito, con gli occhi tenuti chiusi dalle manteche messe nelle orbite, con i capelli appiccicati e così pure la barbetta rada sul mento, ne è bruttato.
Cade lentamente il lenzuolo, la sindone messa intorno al corpo, man mano che le bende scendono, scendono, scendono, liberando il tronco che avevano costretto per dei giorni, e rendendo forma umana a ciò che prima avevano reso simile a una grande crisalide. Le spalle ossute, le braccia scheletrite, le coste appena coperte di pelle, il ventre infossato appaiono lentamente. E man mano che le bende cadono, le sorelle, Massimino, i servi, si affannano a levare il primo strato di sudiciume e insistono sinchè con acque sempre mutate e rese detergenti dagli aromi aggiunti alle acque, la pelle non appare netta.
Lazzaro, quando gli liberano il volto e può guardare, dirige il suo sguardo a Gesù prima ancora che alle sorelle, e si smemora e astrae da tutto ciò che avviene nel guardare, con un sorriso d’amore sulle labbra pallide e un luccichio di pianto nelle occhiaie fonde, il suo Gesù.
Anche Gesù gli sorride ed ha una lucentezza di pianto nell’angolo dell’occhio, ma senza parlare dirige lo sguardo di Lazzaro al cielo, e Lazzaro comprende e muove le labbra in una silenziosa preghiera.
Marta crede che voglia dire qualcosa e ancor non abbia voce e chiede: “Che mi dici, Lazzaro mio?”
“Nulla, Marta. Ringraziavo l’Altissimo.” La pronuncia è sicura, forte la voce.
La gente ha un nuovo “oh!” di stupore.
Ormai lo hanno liberato sino ai fianchi, liberato e pulito. E possono rivestirlo della tunica corta, una specie di camiciola che supera l’inguine ricadendo sulle cosce.
Lo fanno sedere per slegargli e lavargli le gambe. Come esse appaiono, Marta e Maria gridano forte accennando le gambe e le fasce. E se sulle fasce strette alle gambe e sulla sindone posta sotto le fasce, gli scoli putridi sono tanto abbondanti da far rivoli sulle tele, le gambe appaiono cicatrizzate affatto. Solo le cicatrici rosso-cianotiche sono ad indicare dove erano le cancrene.
La gente, tutta, grida più forte di stupore; Gesù sorride e sorride Lazzaro che si guarda per un attimo le gambe guarite, e poi si torna ad astrarre guardando Gesù. Pare che non si possa saziare di vederlo. I giudei, farisei, sadducei, scribi, rabbi si fanno avanti, cauti per non contaminarsi le vesti. Guardano ben da vicino Lazzaro. Guardano ben da vicino Gesù. Ma nè Lazzaro nè Gesù si occupano di loro. Si guardano. E tutto il resto è nulla.
Ecco che vengono messi i sandali a Lazzaro. Egli si alza in piedi, agile, sicuro. Prende la veste che Marta gli porge, da sè se l’infila, si lega la cintura, si aggiusta le pieghe. Eccolo, magro e pallido, ma uguale a tutti. Si lava ancora le mani e le braccia sino al gomito rimboccandosi le maniche. E poi con nuova acqua di nuovo il volto e il capo, sinchè non si sente affatto netto. Si asciuga i capelli e volto, rende l’asciugatoio al servo e va diritto da Gesù. Si prostra. Gli bacia i piedi.
Gesù si curva, lo rialza, lo stringe al cuore dicendogli: “Ben tornato, amico mio. La pace sia teco e la gioia. Vivi per compiere la tua felice sorte. Alza il tuo volto chè Io ti dia il bacio di saluto.”
E lo bacia, ricambiato da Lazzaro, sulle guance.
Dagli scritti di Maria Valtorta..