Con la terapia a base di plasma iperimmune, la cura per il coronavirus che tutti aspettano potrebbe essere alle porte.
Pur facendo la dovuta attenzione nel non alimentare false speranze, i segnali positivi ci sono e fanno ben sperare.
Si tratta della terapia con il plasma, che presenta al proprio interno gli anticorpi sviluppati dalle persone guarite. Al momento è considerata una delle strade più serie e percorribili per la ricerca della cura al virus. E la sta sperimentando il nostro paese, in particolare l’ospedale San Matteo di Pavia assieme al Carlo Poma di Mantova. I risultati sembrano dare effetti a dir poco positivi.
La soluzione contro il coronavirus potrebbe essere perciò già presente nel sangue dei guariti. E viene da una tecnica che di per sé è complessa ma conosciuta dagli scienziati già da anni. Il virologo Guido Silvestri ha infatti spiegato che alla Emory University è già stato usato nel 2015 in pazienti con Ebola. Lo stesso è già accaduto per il coronavirus, per il quale studi internazionali già da mesi ne parlano.
Il plasma è la parte più liquida presente nel nostro sangue, di colore chiaro e non rosso. Questo è infatti formato da acqua, proteine, nutrienti, ormoni. Ed è privo di elementi corpuscolati, vale a dire globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Nel plasma sono contenuti una quota di anticorpi che si sono venuti a formare nel momento che la persona in un primo momento infetta è guarita dal coronavirus. Vale a dire, gli anticorpi neutralizzanti, che si legano all’agente patogeno e lo disinnescano, su cui da mesi si lavora in laboratorio.
Alcuni pazienti in Cina hanno ricevuto questo trattamento nella prima fase della pandemia. Negli Stati Uniti, questa soluzione è stata approvata dalla Fda già a marzo. Ad oggi, 4.400 infusioni a base di plasma sono state donate da più di 8mila convalescenti. Il professore Silvestri è intervenuto sul sito Medicalfacts spiegando che “l’impressione preliminare è che si tratti di un approccio molto promettente.
Tra i vantaggi, oltre al precedente di Ebola e al razionale fisio-patologico, citerei l’entusiasmo dei donatori (noi ne abbiamo davvero tantissimi, anche se non tutti hanno un titolo alto di anticorpi anti-SARS-CoV-2), il basso costo, e la minima tossicità. Lo svantaggio principale, non insormontabile, è la virtuale impossibilità di standardizzare vista la variabilità da donatore a donatore”.
I problemi che infatti, tuttavia, presenta questa soluzione sono legati innanzitutto alla sua disponibilità. E poi alla necessità di trovare sempre un plasma compatibile con la persona a cui viene iniettato. Due caratteristiche che stanno facendo prendere una strada diversa ad alcuni centri, tra cui l’Istituto Mario Negri.
“Si sta cercando di non somministrare tutto il plasma, ma di estrarre solo gli anticorpi neutralizzanti, proprio per evitare problemi di incompatibilità. In tempi non lunghissimi, entro la fine di maggio, dovremmo avere le prime risposte”, ha infatti spiegato il fondatore Silvio Garattini.
Ma a parte questi due scogli, la strada del plasma pare essere al momento “una via assolutamente da seguire, i primi dati disponibili sembrano interessanti”, ha spiegato Garattini.
Anche se “non sarà ‘la’ terapia, si tratta di una cura per l’emergenza, finché non verranno messi a punto farmaci specifici, anche perché il trattamento deve essere in ambito ospedaliero, e solo su pazienti in condizioni serie”.
Giovanni Bernardi
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