La figura di San Benedetto occupa, nella storia del monachesimo occidentale, un ruolo di primaria importanza, grazie soprattutto alla stesura della Regola.
Datata tra il 534 e il 540, la Regola di San Benedetto si presenta come una sintesi matura e univoca delle regole monastiche precedenti. Il Santo di Norcia, fondatore del monastero di Montecassino, nel quale visse gran parte della sua vita, contemplò e maturò la stesura della regola proprio a Montecassino, prendendo spunto da regole precedenti.
In particolar modo, l’abate si lasciò ispirare dalle regole di San Giovanni Cassiano e di San Basilio. In parte, la sua ispirazione provenne anche dalle regole di San Pacomio e San Cesario, nonché dall’Anonimo della “Regula Magistri”. San Benedetto organizzò la vita monastica attorno a tre assi portanti: la preghiera comune, la preghiera personale e il lavoro costante.
La Regola, conosciuta anche come “Regula monachorum” o “Sancta Regula” prende spunto dalla personale esperienza eremitica del Santo, un’esperienza che gli fece comprendere, a pieno, quanto le debolezze umane fossero fonte di “allontanamento da Dio”. Tutto ciò, nelle riflessioni del Santo, si traduceva in una Regola dove la “noia spirituale” fosse combattuta dal cenobitismo, dunque una vita comunitaria che prevedeva un tempo per l’orazione, intesa come contemplazione di Cristo e praticata sia in comunità, sia attraverso i canti (gregoriani) e uno per il lavoro. Questi precetti si traducevano nella locuzione “Ora et labora”.
Usata pressoché dalla maggioranza dei monasteri (i monasteri che ne fanno uso vengono definiti “benedettini”), la Regola, strutturata in un prologo e 73 capitoli funge da fonte di istruzione e di esortazione per i monaci. Ma alla base di tutto ciò vi è l’amore: San Benedetto ama i suoi monaci e, fin dalle prime parole, utilizza uno stile calmo e sereno: “Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro, e tendi l’orecchio del tuo cuore; accogli di buon animo i consigli di un padre che ti vuole bene“.
San Benedetto, durante la stesura della sua Regola, scrisse esplicitamente che “l’ozio è nemico dell’anima” ed è proprio per questo motivo che i frati devono, in determinate ore del giorno, dedicarsi al lavoro manuale, mentre in altre, alla Parola di Dio. Allontanandosi, dunque, dalle estreme mortificazioni e privazioni spesso imposte dalla vita solitaria degli asceti, San Benedetto scelse indicazioni attuabili anche da persone comuni. La principale attività all’interno dei monasteri divenne, dopo la stesura della Regola, la copiatura dei testi antichi, soprattutto quelli biblici.
C’è un aspetto particolarmente importante che caratterizzò, fin da subito, la regola benedettina. Nell’organizzare la vita monastica, il Santo mise al centro della convivialità due precetti importantissimi, due principi cardine della vita comunitaria, come egli la definiva. Il primo è quello definito dalla locuzione latina “stabilitas loci”, consistente nell’obbligo per ogni monaco, di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero. Ci si allontanava così da quel “vagabondaggio” molto diffuso tra i monaci.
L’altro principio è la “conversatio”, caratterizzata dalla buona condotta morale e, soprattutto, l’obbedienza all’abate. Ma attenzione, San Benedetto non definisce mai l’abate un “superiore”, piuttosto, un “padre amoroso”, colui che scandisce il tempo e coordina la famiglia nelle giornate di preghiera e lavoro.
Nella sua prima parte, quella caratterizzata dal prologo, la Regola di San Benedetto paragona il monastero, all’interno del quale si rispetta tale regola, ad una vera e propria “scuola”. Ci si riferisce, nel pensiero benedettino, alla “scuola che insegna la scienza della salvezza”. Rispettando i precetti della Regola, i discepoli possono entrare a divenire parte del Regno di Cristo“.
Fabio Amicosante
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