Il vincitore del premio Nobel per la Letteratura 2023 è un convertito al cattolicesimo. E nei suoi libri la preghiera è fondamentale.
Nel suo passato anche un tormentato rapporto con l’alcol prima di approdare alla fede della Chiesa.
«I miei libri sono una preghiera a Dio», spiegava nel 2015 lo scrittore Jon Fosse, fresco vincitore (lo scorso 5 ottobre) del premio Nobel per la Letteratura. Educato nel protestantesimo, tre anni prima si era convertito dall’ateismo al cattolicesimo, quando aveva abbondantemente passato la cinquantina.
In Norvegia i cattolici sono una presenza minoritaria, anche se importante nel contesto del Nord Europa: poco più di 151 mila, circa il 5% della popolazione, e per lo più di origine straniera.
La fede occupa un posto importante nell’opera letteraria di questo scrittore che non prova vergogna nel professarsi credente, al punto da attribuire la sua scrittura, e l’esistenza stessa, a «un dono, una sorta di grazia». In passato Fosse ha dovuto combattere contro i demoni dell’alcolismo e dell’ansia. E dice di aver tratto numerosi benefici dalla sua conversione alla fede cattolica, alla quale riconosce tra le altre cose il merito di avergli fornito un grande aiuto nell’affrontare i suoi problemi.
Dall’ateismo alla mistica
Nato nel 1959 a Haugesund, villaggio della costa occidentale norvegese, Fosse è cresciuto a Strandebarm, sul fiordo di Hardanger. Nato in una famiglia di pietisti protestanti, in gioventù ha preso le distanze dalla fede della sua infanzia. Successivamente si è definito “gnostico” e ateo, affascinato dal marxismo.
Dopo aver esplorato il luteranesimo delle origini, trovandolo però troppo moralistico, è successivamente approdato al mondo della Chiesa cattolica, che lo ha colpito per il rispetto della persona, il ricorso ai simboli e la sua tendenza iconofila, inesistente nella cultura protestante.
Decisiva nello spingerlo a fare il grande passo verso la fede cattolica, a 53 anni, nel 2012, è stata però la lettura del domenicano tedesco del Medioevo, Meister Eckhart, considerato il padre della mistica renana. «L’ho letto molto a partire dagli anni ’80», ha detto alla radio tedesca Deutschlandfunk Kultur nel 2015. «E mi sono detto: “Se lui poteva essere cattolico, posso esserlo anch’io!”».
«La fede è un mistero», ha dichiarato alcuni anni fa lo scrittore. «E mi pare che la tradizione cattolica si prenda cura di questo mistero più di quella protestante. In un certo senso sono un mistico cristiano».
Un libro ricco di preghiera
Da quando ha abbracciato il cattolicesimo, i riferimenti religiosi nella sua opera si sono fatti sempre più espliciti. Scrittore molto prolifico, acclamato come il nuovo Ibsen, ispirato da Samuel Beckett, nei primi due volumi della serie forse più conosciuta dei suoi romanzi (tradotti in italiano col titolo L’altro nome. Settologia I-II) la fede di Jon Fosse traspare a più riprese sullo sfondo dei silenzi e degli infiniti spazi delle terre norvegesi.
Il protagonista del libro è Asle, un pittore solitario di mezza età, vedovo e ex alcolizzato, anche lui divenuto cattolico come Fosse. In sua compagnia c’è il suo doppio: un altro pittore solitario, suo omonimo, ma ancora preda dell’alcol. Nel continuo gioco di specchi tra i due Asle si affrontano temi come la solitudine, la morte, Dio, il senso dell’arte e del tempo.
Tutto il libro è un flusso di pensieri e di coscienza, senza mai un punto, solo virgole, dove il lirismo si intreccia alla filosofia. Si parla anche di preghiera, il cui ritmo scandisce la vita quotidiana di Asle: «Prego più volte al giorno e vado a messa il più spesso possibile», confessa il protagonista del romanzo.
E ancora, in uno dei tanti passaggi dedicati alla preghiera: «Quasi tutti i giorni ripeto per tre volte una preghiera che ho composto io stesso, la mattina, a metà giornata e poi la sera, sì, lodi, o mattutino, come lo chiamano, poi la sesta e infine i vespri e per pregare uso un rosario fatto di perline di legno marrone suddivise in cinque decadi e formate ognuna da dieci grani e tra ogni decade c’è uno spazio e alla fine la corona si chiude con un filo pendente su cui distanziato da uno spazio c’è un grano, poi tre grani, poi uno spazio, poi un grano, poi uno spazio e in fondo una croce e ho sempre un rosario intorno al collo».
Scrivere? Un modo di pregare
Jon Fosse vive parte dell’anno nel villaggio austriaco di Hainburg an der Donau, non distante da Vienna, da dove è originaria sua moglie. Per scrivere dice di preferire questo luogo semisconosciuto, sulle rive del Danubio, dove a differenza della Norvegia nessuno lo conosce.
Già, la scrittura. Per Fosse è apparentata alla preghiera e al mistero: «Sono felice quando scrivo. Questo è il mio modo di pregare. Mi vengono le parole. È piuttosto misterioso».
Curiosamente, l’ultima figura della letteratura norvegese a ricevere il Premio Nobel per la letteratura (su quattro in totale) fu la scrittrice Sigrid Undset nel 1928. Anche lei convertita dal protestantesimo al cattolicesimo (quattro anni prima) prima di diventare terziaria domenicana. Difese con ardore la fede cattolica in una società già allora molto secolarizzata, denunciando poi coraggiosamente l’avvento del nazismo.