Parole forti sul destino della Chiesa pronunciate allora da un giovane Ratzinger, che riaffiorano dopo oltre cinquant’anni con grande forza.
Siamo alla fine del 1969: una radio tedesca trasmette un ciclo di conferenze di un teologo già allora piuttosto noto, docente all’università di Ratisbona. Il suo nome è Joseph Ratzinger.
Il Concilio Vaticano II era terminato da appena quattro anni e nella Chiesa si respirava una certa inquietudine. È proprio in quella temperie che uno dei periti conciliari di maggior prestigio pronunciò un discorso destinato, molti anni dopo, a passare alla storia.
Il bivio post-conciliare
Il giorno di Natale, la dissertazione del 42enne già perito conciliare giunge al suo punto più drammatico. Parole, lì per lì, scivolate via e dimenticate, destinate, però, a scorrere come un fiume carsico, per riemergere in tutta la loro forza una cinquantina d’anni dopo.
In quel discorso, ripreso per la prima volta a mezzo stampa nel saggio Fede e futuro (1971), Joseph Ratzinger affrontava con lungimiranza il tema del declino della Chiesa e della sua sempre più insostenibile incapacità di dare risposte all’uomo contemporaneo.
La prospettiva del futuro pontefice era tutt’altro che scontata: la linea egemone nel post-Concilio era all’insegna dell’aggiornamento, per cui ogni innovazione ecclesiale non percepita come efficace, andava accolta come uno stimolo a cambiare in modo sempre più radicale.
Per Ratzinger, il concetto di cambiamento era profondamente diverso: per ritrovare se stessa, la Chiesa doveva tornare allo Spirito delle origini e offrire buone ragioni per credere.
Una visione apocalittica
Con largo anticipo, il teologo tedesco aveva compreso che, prima ancora che spirituale, il problema dell’umanità era antropologico. “Siamo a un enorme punto di svolta – affermava Ratzinger – nell’evoluzione del genere umano. Un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante”.
Il grande timore del futuro cardinale e papa era quello di un clero che, pur di adeguarsi alla sensibilità del mondo e del tempo, avrebbe finito per ridurre i suoi rappresentanti ad “assistenti sociali”.
“Dalla crisi odierna – affermava – emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali”.
Una visione drammatica ma non cupa quella del giovane Ratzinger. Il suo era uno sguardo apocalittico nel senso etimologicamente corretto di svelamento del futuro. Il teologo bavarese non ragionava in termini prescrittivi ma descrittivi. I suoi non erano auspici ma descrizioni oggettive di una realtà in divenire.
La “Chiesa degli indigenti”
Quella del futuro, diceva Ratzinger, sarebbe stata “una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti”.
Per arrivare a ciò, sarebbe stato necessario “un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato – sosteneva il futuro pontefice – emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata”.
Colti da sgomento, per la povertà sopraggiunta e per l’“indescrivibile solitudine” procurata dalla perdita della fede, i cattolici del futuro avrebbero rivisto la luce al momento di accogliere “quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.
Il senso attuale del “non praevalebunt”
La “profezia” di Ratzinger del 1969 è stata più volte rilanciata a partire dagli anni del suo pontificato e, ancor più, dopo la sua rinuncia. Specie sui social, quelle sue parole sono state postate a volte a sproposito, magari nel tentativo di alimentare la contrapposizione con il papa regnante Francesco.
Cosa volesse intendere all’epoca Joseph Ratzinger può prestarsi a mille interpretazioni. Eppure, le sue parole non sono rivolte a una ristretta cerchia di iniziati ma a tutti: “A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo, essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.
“La Chiesa cattolica sopravvivrà nonostante uomini e donne, non necessariamente a causa loro, e comunque abbiamo ancora la nostra parte da fare. Dobbiamo pregare e coltivare la generosità, la negazione di sé, la fedeltà, la devozione sacramentale e una vita centrata in Cristo”. In queste frasi troviamo il vero senso del “non praevalebunt” che Cristo promette al primo Papa (cfr Mt 16,17-19): è significativo come, duemila anni dopo, un futuro papa le abbia così sorprendentemente riattualizzate.