Tra tutti i misteri della Fede quello che forse ci riguarda più da vicino e la mette a dura prova è la sofferenza, essa non ha alcuna spiegazione umana e va presa come un’assoluta verità da accettare come volere di Dio, d’altro canto lo stesso Gesù non si è sottratto ad essa ma la resa lo strumento della nostra salvezza addossandosela.
Ciò non toglie che la sofferenza a cui siamo sottoposti quotidianamente rimanga un grande mistero, qualcosa di intangibile che assume senso solo in relazione alla crocefissione di Cristo. Ma in che modo la sofferenza di Cristo giustifica la nostra? Quale significato da ai patimenti che siamo costretti a subire quotidianamente?
Il primo punto da sottolineare è che la sofferenza di Cristo in croce non ci libera dalla sofferenza, ma è nella sofferenza che ci rende liberi. Il gesto della passione è un atto di devozione al volere del padre, accollandosi le torture in croce Gesù, non solo ha dimostrato assoluta devozione al volere del Padre, ma ci ha mostrato qual’è la via per raggiungere la vita eterna.
Questo non significa che il dubbio riguardante il perché della sofferenza non ci debba sfiorare, ma che dopo il primo attimo di perdizione dobbiamo accettare il volere di Dio e rimetterci alla sua assoluta saggezza, solo in questo modo possiamo dire di avere fede. Interessante in questo senso sono alcuni passi del Vangelo in cui Gesù va a curare gli ammalati, in questi si vede come egli non li esorta alla rassegnazione, ma li invita ad avere fede e continuare a pregare.
Questo messaggio viene ribadito anche da San Paolo e successivamente da Giovanni Paolo II che spiega come a livello pastorale: “Non esiste la malattia ma il malato, non esiste la sofferenza ma il sofferente” questo offre un cambio di paradigma perché in questo modo non si cura la malattia o la sofferenza ma la persona e la sua anima. Il vescovo o il sacerdote deve quindi lavorare sulla speranza e aiutare il sofferente o il malato affinché “Gestisca la malattia, o viva la prova, in modo da trasformarla in un atto consapevole d’offerta, in un atto d’amore e d’abbandono”.
Sembra quasi che il Cristianesimo si fondi ad un primo sguardo su di una sorta di dolorismo, ma così non è : se è vero che il messaggio è quello di sopportare la sofferenza al fine di raggiungere un traguardo più alto e significativo, questo non viene raggiunto tramite la sofferenza. Il cristiano non gioisce del dolore ma lo affronta con umiltà, per questo Papa Giovanni Paolo II ci ha tenuto a precisare ancora una volta nel Concilio Vaticano II come Gesù non ci abbia liberato dal dolore ma se lo sia addossato dandone un altro significato. Vista da questa prospettiva la preghiera non è un mezzo per evitare il dolore ma per affrontarlo e superarlo dopo un periodo di tribolazione grazie alla fede.
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