Il rapporto tra Ebrei, pagani e cristiani è molto importante e va colto non alla luce della storia, ma con i parametri della fede: vediamo come.
Se c’è una questione in sé stessa assolutamente religiosa, ma di fatto particolarmente collegata con la politica, questa sta nel rapporto di continuità e di discontinuità, per riprendere termini per lo più storiografici, tra l’Antica e la Nuova Alleanza, tra l’ebreo Gesù, unico Fondatore della Chiesa e i santi patriarchi e profeti dell’antico popolo ebraico.
Moltissimi cattolici, e non pochi studiosi laici o razionalisti, credono che il rapporto teologico tra Cristianesimo ed Ebraismo – ma potremmo anche dire tra Vecchio e Nuovo Israele – sia stato trattato per la prima volta, a livello dottrinale-magisteriale, nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate pubblicata, non senza contrasti, alla fine del Vaticano II (28 ottobre 1965).
Ma questo è del tutto falso, sia teologicamente che storicamente. I cristiani della prima generazione, seguaci degli stessi Apostoli e dei discepoli della prima ora, dovevano certamente possedere quelle minime cognizioni religiose per capire che, dall’Ebraismo nativo, rituale ed etnico in cui erano cresciuti, era giunto il momento di passare al Cristo, il Messia atteso da Israele e profetizzato da Isaia e gli altri.
La Comunità ecclesiale, nelle sue dimensioni costitutive della gerarchia apostolica e della retta fede, non ha ovviamente atteso 20 secoli per comprendere e proporre una lettura di fondo dello sviluppo storico-teologico delle varie fasi della Rivelazione ebraico-cristiana. Da un lato, i Padri e i dottori della Chiesa giudicarono erronea la posizione marcionita e fondamentalista che voleva respingere in blocco l’Antico Testamento, come se esso fosse intrinsecamente cattivo, o ispirato da un dio malvagio, e che quindi andasse espulso dal (costituendo) Canone biblico, annullando tutta la Torah alla luce del Nuovo Testamento. D’altra parte fu chiaro come il sole che il Nuovo, vero ed unico Israele – espressioni queste ultime presenti e frequenti nei Padri e nel Magistero cattolico, incluso il Magistero conciliare – fosse (divenuta) la Chiesa. Composta da quegli Ebrei (come gli apostoli) e da quei pagani (come l’italico Cornelio) che accetteranno Gesù quale universale e definitivo Salvatore del mondo e della storia.
Un piccolo libretto, teologicamente inoppugnabile e di luminosa profondità spirituale, uscito già 5 anni or sono apporta viva luce su tutto ciò, e ci offre una istruzione decisiva sulla intricata e fondamentale questione (cf. Erik Peterson, Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa, Mimesis, Milano 2013, pp. 88). La validità peculiare del testo sta nel fatto di essere asciutto, sintetico e ben radicato nella Traditio ecclesiae, la quale se conosce sviluppi ed evoluzioni omogenee, resta però semper idem e non muta codice genetico.
Il suo autore, Erik Peterson (1890-1960), benché poco noto al grande pubblico, fu un teologo insigne ed un uomo di vasta cultura, particolarmente apprezzato da Benedetto XVI, il quale lo citò più volte nei suoi libri. Il Dizionario enciclopedico Utet lo presenta così: “Esegeta, storico del cristianesimo e della Chiesa antica, patrologo, storico delle religioni […]. Prima professore nelle facoltà teologiche protestanti di Gottinga e di Bonn, si convertì al cattolicesimo nel 1930, a Roma, dove rimase poi insegnando al Pontificio Istituto di archeologia cristiana”. Quella Roma di cui il provvidenziale Concordato siglato appena un anno prima, riconosceva la sacralità per il suo ruolo unico di capitale della cristianità e sede definitiva del Maestro delle genti, il Vicario di Cristo.
Nel 1933, proprio mentre si andava affermando l’antisemitismo neo-pagano nella Germania dell’antisemita Lutero (cf. Lutero, Contro gli Ebrei e le loro menzogne, Einaudi), Peterson scrisse il presente saggio, tradotto nel 1935 in francese e nel 1946 in italiano. Dopo una seconda edizione italiana del 1960, le edizioni Mimesis hanno pubblicato questa terza edizione che davvero colma una lacuna, permettendo agli studiosi di ogni orientamento, di discernere meglio quale sia la risposta tradizionale della Chiesa e dell’autentica teologia al problema del rapporto, non sempre facile, tra Ebrei (di stirpe e/o di religione) e cattolicesimo.
Il libretto si compone di 3 capitoletti in cui Peterson offre une teologia dell’Antico Testamento alla luce del Nuovo – come è d’uopo fare, piuttosto che il contrario – spiegando vari brani controversi e decisivi della Scrittura, come i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani. Qui l’Apostolo dei Gentili (benché giudeo figlio di giudei), tratta da cristiano ispirato dall’Alto, “della relazione fra Israele e i gentili convertiti, della relazione fra la Sinagoga e la Chiesa” (p. 10).
Essendo un tema delicato e cruciale consiglio a tutti di procurarsi il testo e di darsi ad una lettura attenta e meditata, meglio se con la matita rossa in mano per sottolineare i passi più importanti. Ovviamente senza dimenticare i vari altri testi che trattano della questione, come gli studi di Eugenio Zolli, opportunamente ristampati negli ultimi anni, la sintesi di mons. Francesco Spadafora (Cristianesimo e giudaismo, Solfanelli, 2012), il libro ‘profetico’ del gesuita Carlo Colonna (Gli Ebrei messianici, Fede & Cultura, 2012) o quello dello studioso ebreo ed amico di Benedetto XVI, Jacob Neusner (Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune, san Paolo, 2009).
La trama teologica proposta da Peterson sta nel passaggio dell’elezione, dell’adozione, dell’alleanza e del culto, dall’Israele storico alla Chiesa, vero Israele senza confini che coincide con l’intera umanità redenta e in via di conversione.
La sintesi di questo passaggio teologico irreversibile, dal particolare all’universale, dalla legge di Mosè (buona ma imperfetta) a quella di Cristo (soave e perfettissima), è rappresentato dalla liturgia che è la teologia vissuta del Popolo di Dio. “Al culto del Tempio di Gerusalemme si è sostituito il culto spirituale reso a Dio da coloro che conoscono un sacrificio ben superiore a un sacrificio d’animali” (p. 15, corsivo mio). Così, se è vero che “il Messia non esce da Atene, non da Roma” (p. 17) ma da Betlemme, Nazareth e Gerusalemme, è anche vero che “il culto cristiano non può essere interpretato come una spiritualizzazione del culto giudaico, perché il culto cristiano opera la sostituzione dei sacrifici cruenti rimpiazzati col sacrificio del Figlio dell’uomo” (p. 15, n. 3). Infatti, “Gerusalemme non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata” (Nostra aetate, n. 4).
Questa sostituzione spirituale è il fondamento assiologico dell’evangelizzazione che i battezzati debbono praticare per cooperare come possono alla salvezza di tutti, o almeno del maggior numero, affinché si completi il numero degli eletti (Ef 1,4-6).
D’altra parte, “chi contesta valore teologico al problema della relazione tra la Chiesa e la Sinagoga e considera questa relazione come un semplice problema storico, finisce necessariamente per far rivivere la posizione gnostica” (p. 24, n. 14).
Papa Francesco più volte ha messo in guardia i cattolici dal ritorno – nella Ecclesia – dello gnosticismo e delle sue teorie esoteriche, intellettualistiche e anti-evangeliche. Nel discorso tenuto a Firenze il 10 novembre 2015, il pontefice nota che nello gnosticismo di oggi, “il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti”. Infatti, “lo gnosticismo non può trascendere. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione”. Centrale per noi cristiani, accessoria per gli gnostici antichi e moderni.
Quindi, al netto di tutte le diatribe storiche tra cristiani, ebrei e mussulmani, dobbiamo sapere – posta l’esistenza ragionevole e innegabile di un Creatore – se questo Dio realmente sia venuto in questo mondo e si sia fatto carne e sangue (cristianesimo), o se invece la sua incarnazione sia solo metafora, mito e leggenda (ebraismo, islam, ateismo, umanesimo integrale…).
Fabrizio Cannone
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