Classificati in numero di sette i peccati capitali, detti anche vizi, sono le più grandi mancanze e i peggiori difetti dell’uomo.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica è molto chiaro ad elencare i sette peccati capitali, ovvero i vizi maggiori che si possono compiere. Si chiamano così, cioè capitali, per indicarne la gravità, in quanto si tratta di peccati che generano a loro volta altri peccati.
In una proliferazione del vizio i peccati capitali sono in numero di sette contrapposti così alle sette virtù cardinali e teologali, le disposizioni a fare il bene e compierlo in modo saldo. Come nascono queste classificazioni e perché la Chiesa l’ha stabilita?
Concetto diametralmente opposto a quello di virtù, il vizio, e quindi il peccato, è letteralmente la pratica del male, intesa come abituale incapacità di compiere azioni di bene. Si tratta di qualcosa di radicato nel cuore umano, che però può essere combattuto.
Il sistema dei sette peccati capitali strutturato secondo una precisa denominazione è una creazione di ambiente monastico. Ne parlava già il filosofo greco Aristotele nell’Etica Nicomachea ritenendo i vizi come gli “abiti del male“. Fu Evagrio Pontico, eremita egiziano che viveva nel deserto, il primo ad elaborare una dottrina circa i vizi dell’uomo.
Il suo discepolo Giovanni Cassiano ne proseguì l’elaborazione e individuò otto peccati. San Gregorio Magno, successivamente, definì il numero di sette ed elenco i vizi capitali come li conosciamo ancora oggi. Per peccati capitali si intendono: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia.
Il Concilio Lateranense IV riconobbe questi vizi come maggiori e ordinò l’esigenza della Confessione almeno una volta l’anno. Si compì un approfondimento su tali vizi. Il vizio etimologicamente indica un difetto, la mancanza di qualcosa. In termini spirituali si riferisce ad un comportamento morale deviato, una mancanza dello spirito.
San Tommaso d’Aquino si interessò di identifiare i sette vizi capitali e li considerò distorsioni nella ricerca di di sette beni desiderati, spirituali e corporali.
Nella primissima classificazione, quella di Evagrio Pontico e Cassiano, era presente un ottavo vizio, identificato nella tristezza. Con il tempo questo non fu più considerato un vero e proprio peccato, ma venne inglobato nel concetto di accidia.
La superbia, detto anche orgoglio, è la rivendicazione della propria superiorità ed è considerato il peccato più grande quando si compie verso Dio. È ciò che compirono i progenitori, disobbendendo al Creatore. A cascata dalla superbia derivano atteggiamenti peccaminosi come la vanità, il giudizio dell’altro, il senso di onnipotenza e la volontà di sottomissione degli altri.
L’invidia è un odio verso il prossimo per qualcosa che manca a sé. Ne scaturisce la gelosia e porta a concentrarsi esclusivamente su se stessi. La lussuria può essere legata al piacere sessuale, ma non solo: è la ricerca del piacere fine a se stesso che porta e deriva da un vuoto interiore e si esprime nell’egoismo.
Il vizio della gola non si riferisce soltanto allo smodato desiderio di cibo, ma di qualsiasi cosa sia desiderata in modo eccessivo. Ha come sostrato un perenne stato di insoddisfazione e da essa scaturisce la cupidigia legandosi molto spesso ad altri vizi come la lussuria e l’invidia.
C’è poi l’accidia, che è un effettivo rifiuto della vita. Si manifesta come senso di noia e di inerzia costanti che si protraggono nel tempo. Si vive in una situazione di immobilismo che impedisce di aprirsi al nuovo e quindi agli altri e a Dio.
L’ira è un sentimento di odio rivolto verso gli altri che dal pensiero può trasformarsi anche in violenza. Parte da una frustrazione e alimentata da pensieri negativi produce risentimento e desiderio di vendetta. Si manifesta generalmente verso gli altri, verso cui si vuole la distruzione, ma può anche prendere la forma di ira verso se stessi avviando comportamenti autodistruttivi.
Infine, l’avarizia è un attaccamento morboso ai propri beni materiali. Si collega all’avidità, quindi al desiderio di avere sempre di più idolatrando denaro e oggetti con una tendenza ad accumularne per colmare un vuoto che è profondo e non viene riempito con Dio, che invece è lasciato fuori dal proprio orizzonte.
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