Una storia di grazia e bellezza
Di Don Marco D’Agostino
Ho cominciato a suonare il campanello di via Donatori del Sangue 2/a, a Sospiro, in provincia di Cremona, la sera del 16 luglio scorso. Sul campanello la scritta “Ghezzi-Firetti”. Dentro casa, appena dopo aver salito la scala, la mamma Laura, il papà Luciano, il fratello Federico e Gianluca, non ancora ventenne, malato da due di osteosarcoma, protagonista di questa storia che, per essere raccontata, ha bisogno di lettere.
Esattamente come nel libro che ho scritto a quattro mani con lui (Spaccato in due. L’alfabeto di Gainluca, San Paolo editrice). Attraverso due vocali tenterò di raccontare come la vita di Gianluca sia stata – ma lo è ancora adesso, più di prima – un modo concreto per dar vita ad un vero e proprio concerto e ad un’armonia di pensieri, gesti, preghiere, incontri, aiuto ai bisognosi e amore intenso espressi al massimo livello.
Comincerò dalla “A” di accoglienza. La mia storia con Gian è iniziata così. Preoccupato di che cosa dovevo dirgli, di come presentarmi a lui, dopo che aveva chiesto di vedermi, di quanto fermarmi in casa con lui, sono uscito lavato e purificato dalla sua stessa presenza. Da subito, quella sera, con una fetta di torta e tè, soprattutto dalle sue parole e dal suo sguardo profondo, mi sono sentito subito “di casa”. Gian è stato di una semplciità disarmante, pari a quel bambino evangelico, simbolo del Regno, che sa proporsi così com’è, senza schermi o difesa.
E chiedeva a me nient’altro se non di stare, davanti a lui, così come anch’io ero. Senza la preoccupazione del colletto, dell’uomo di Chiesa, del cosa dire, del come dirlo, di quali argomenti affrontare per primi. Senza la corazza di chi si tiene a distanza. Gian è stato capace – settimana per settimana – di aprire sempre di più il rubinetto del suo cuore. Da quel deposito, apparentemente sopito, ha saputo spillare il vino buono, per l’ultima parte del suo banchetto nuziale. Gian ha aperto, anzitutto la porta del suo cuore. E da lì, da quell’entrata particolarmente intensa e ricca, ha permesso a Dio, in primo luogo, ma anche a me e a tanti altri di entrare.
Ha consegnato, gradatamente, la chiave del suo cuore, fidandosi ciecamente che, chi gli voleva bene avrebbe saputo aiutarlo, in ogni modo, qualunque cosa fosse capitata. Anche il peggio. Ha deposto la sua vita in mani, cuori, presenze accoglienti. I suoi genitori e suo fratello prima di tutto. Ma anche amici, preti, volontari, medici e infermieri.
Ha contagiato tutti quanti con la sua malattia più grave: l’amore. La sua accoglienza sembrava predicare un affidamento della vita – la sua – che, già così fragile, si avviava – e lui ben lo sapeva – verso un’inesorabile discesa. Ma era come se il tramonto dovesse diventare una nuova alba. Come se, al tempo mancante, supplisse una forza interiore tale da moltiplicare l’intensità degli incontri, la comunione d’intenti, lo scambio d’impressioni.
Per questo non perdeva tempo, non tentennava, non si annoiava, ma viveva tutto, dalla celebrazione eucaristica in casa alla visione di un film, dallo scambio d’impressioni con amici ad una merenda ad una cena intorno al polletto grigliato con le patate, con grande intensità. Nell’accogliere Dio, le persone, la vita, la stessa malattia Gian “rubava” ai suoi amici la loro voglia di vivere, si nutriva della mia poca fede, la sollecitava, desiderando essere nel cuore e nelle preghiere di molti.
fonte: lacrocequotidiano