Di quello che succede alle persone che vanno in coma, si sa sempre piuttosto poco. Il vissuto di questi pazienti, tuttavia, è davvero sorprendente e determinante persino in scelte che coinvolgono la collettività.
Da biologa e da reduce da un coma quasi trent’anni fa, Sara Virgilio ha davvero molto da dire sul fine vita. In un momento in cui, in Italia e nel resto del mondo, il dibattito sull’eutanasia è più che mai acceso, le sue parole illuminano di luce nuova il problema.
Volevo gridare: “sono viva!”
“Quando una persona è in coma, esternamente non si muove, è ferma, ma in realtà ha la percezione di quello che le accade intorno”, ha raccontato la dottoressa Virgilio, in un’intervista a Pro Vita & Famiglia, con riferimento al grave incidente che la vide coinvolta nel 1994, all’età di vent’anni.
“Nel mio caso ho dei frammenti di ricordi che potrei definire momenti di lucidità: ricordo quando mia madre mi diceva che erano arrivati i miei amici a farmi visita. Inoltre – spiega la Virgilio – la mia sensazione era quella di voler dire all’esterno: “Io ci sono”, ma non potevo. Il paziente non è nelle condizioni di esprimere le sue volontà, per questo sono assolutamente contraria al testamento biologico”.
La giovane Sara era stata travolta da un pirata della strada che aveva totalmente ignorato le strisce pedonali. La ragazza era stata quindi trasportata in eliambulanza da Salerno, la sua città, al Policlinico Gemelli di Roma.
A distanza di ventotto anni, ha riferito di aver sentito i medici dire che per lei “non c’era nulla da fare”. All’udire quella frase-choc, la paziente avrebbe “voluto gridare che io c’ero, che ero viva”. Era anche vero, comunque, che le condizioni di Sara erano apparse subito gravissime: emorragia cerebrale, emorragia polmonare e fratture multiple nella parte destra del corpo.
La soluzione: accogliere i malati
“Se avessi firmato il testamento biologico per me sarebbe stata la fine, non avrei avuto modo di comunicare un eventuale ripensamento – ha proseguito la Virgilio –. Una volta uscita dal coma, comunque, per me non è stato facile, ho dovuto lottare per sopravvivere”.
Durante la degenza, la paziente riportò la perdita di un rene, subendo “diversi interventi per l’endometriosi” e “diverse ischemie”, che però l’avevano colpita in un’“area muta del cervello”, quindi senza conseguenze particolari.
Oggi, da biologa, Sara Virgilio sostiene che “non si può decidere per un’altra persona, perché la vita va rispettata”. Oggi, però, “non si comprende che il camice bianco è un tramite che serve per aiutare il paziente a guarire”, non per “decidere al posto di qualcun altro” per la morte del paziente, “staccandogli la spina”.
Cibo e idratazione, aggiunge la dottoressa Virgilio, non vanno mai negati “perché sono atti naturali, ben lontani dall’accanimento terapeutico”. In conclusione, la biologa dice la sua sul disegno di legge sul fine vita, la cui discussione è stata interrotta dallo scioglimento anticipato delle camere, ma che, verosimilmente, troverà spazio anche durante la prossima legislatura.
“Non si può concepire la vita solo in maniera utilitaristica: se produco, vado bene, ma se diventi un peso per lo Stato, devi essere invogliato a morire”, afferma Sara Virgilio confidando che un giorno qualcuno le ha chiesto: “Non sarebbe stato meglio se non fossi mai nata, così non avresti vissuto tutta questa sofferenza?”.
La risposta è stata: “Ma se io non fossi mai nata sarei stata il nulla. Essere invogliati a morire non è così idilliaco come vogliono farci credere, è qualcosa di terribile”.
L’auspicio finale della biologa è di “creare delle strutture dove i malati gravi sono accuditi”. In questo modo, spiega Sara Virgilio, “ci sarebbe molta meno volontà di morire”, a differenza di oggi che “il malato è abbandonato a sé stesso”.