Dal momento in cui Charbel decise di consacrare la sua esistenza al Signore, cominciarono, e si intensificarono sempre più, per lui, tutte quelle pratiche che lo avrebbero portato a dimenticarsi del mondo esterno, materiale e materialistico, per divenire estraneo a questa vita e prendere confidenza con una dimensione fatta di ossequioso ascolto del Signore.
Tutto era in sintonia con la concezione orientale del religioso. Charbel, libanese e Maronita, come gli altri suoi confratelli, doveva essere un monaco senza doveri pastorali, proiettato verso una ricerca interiore di Dio, nell’idea che, salvando la propria anima, si possa salvare il mondo intero.
Il monaco, così, impegnato a schivare tentazioni e peccato, attraverso continue preghiere e anche molte penitenze, diviene l’esempio da seguire, l’essere materiale più vicino allo spirituale, colui che può consigliare sulla via più opportuna per raggiungere consapevolezza della volontà divina ed attuarla, migliorando enormemente la propria fede.
E Charbel, vivendo da eremita per 23 lunghi anni, raggiunse l’apice di questo processo, improntato sulla solitudine, come mezzo per anelare alla più alta virtù, alla sempre maggiore unione col Creatore.
Charbel era molto ligio, nella sua condotta, e non possedeva assolutamente nulla, se non il saio che indossava. Non voleva, tra l’altro, assolutamente sfiorare il denaro, tanto che, quando qualcuno gli lasciava l’elemosina, coinvolgeva un confratello, per fare in modo che lo prendesse e lo consegnasse al Superiore.
Si narra che, il vestito con cui si copriva da anni, fosse diventato talmente usurato che, il Superiore del suo Ordine in persona, gli chiese di farsene cucire un altro.
Charbel disse di non averne bisogno, allora il Superiore dovette ordinaglielo, imporglielo come atto di obbedienza. E Charbel in questo era impeccabile, obbediente a chiunque, anche ai fratelli più giovani o agli operai del Convento. Mai si avvalse della sua posizione o della sua nomea, per delegare ad altri i lavori più umili e pesanti.
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