San Giobbe di fronte alle terribili sventure inviate dal demonio non perse mai la sua proverbiale pazienza, animata dalla fiducia nel Signore, che lo ripagò di tutto.
Giobbe è una figura molto nota nella Bibbia e nella tradizione cristiana come modello di santità e di pazienza. Visse in quello che venne indicato come il “paese di Hus”, identificato da molti autori come la regione posta tra l’Idumea e l’Arabia settentrionale. Si disse inoltre che era “l’uomo piú facoltoso di tutti gli Orientali” e possedeva cammelli, buoi, asini e schiavi in grandissima quantità.
Probabilmente non era nemmeno ebreo, e si riporta che fosse omo intemerato nei costumi, “retto, timorato di Dio e alieno dal male”. Ebbe sette figli e tre figlie e quando fu improvvisamente colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli era al colmo della ricchezza e della felicità.
Di grande simbolicità le sue parole di rassegnazione davanti alla perdita delle cose e delle persone piú care: “Iahweh ha dato e Iahweh ha tolto: il nome di Iahweh sia benedetto“. Lo dura malattia che lo colpì, riducendolo pieno di piage, non fece perdere la sua proverbiale pazienza, nemmeno quando dovette affrontare persino lo scherno e la derisione della stessa moglie.
Venne cacciato di casa e fu costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio, dove lo ritrovano tre amici che erano stati informati della sua disgrazia, e che tentarono in ogni modo di confortarlo. Da lì comincia la lunga riflessione sull’origine del dolore del mondo. Giobbe ne parla in un lungo dialogo con tre amici: Eliphaz il Themanita, Baldad il Suhita e Saphar il Naamatita.
In un secondo momento interviene anche un tale Eliu e Dio medesimo si rivela in una teofania. In questo discorso Giobbe, inizialmente, sfoga il suo dolore maledicendo persino il giorno in cui è nato, e si chiede perché viene data la vita all’uomo se questi è poi ridotto all’infelicità. Ignorando che la sua prova è voluta nientemeno che da Satana e che Dio l’ha solamente permessa.
I tre amici intervengono secondo la teologia tradizionale dell’antico Israele, per la quale Dio è buono e giusto, e che di conseguenza Egli, come premia i buoni ricolmandoli di ogni felicità, punisce i cattivi con il dolore e con le calamità. In sostanza, per i tre il dolore di Giobbe è conseguenza di qualche suo grave peccato.
Giobbe, a suo modo, risponde però con altrettanta evidenza che al contrario è facilmente dimostrabile che spesso l’empio è felice mentre il pio è sventurato. In tutto ciò, rimarca continuamente la sua innocenza e implora il giusto giudizio di Dio. A quel punto però Eliu spiega che il dolore certamente punisce il peccato ma allo stesso tempo può essere anche strumento di prevenzione e di purificazione dallo stesso.
A quel punto il Signore fa sentire la sua parola ammonitrice, così Giobbe si inchina davanti all’infinita e imprescrutabile Sua sapienza. Per questo si getta “sulla polvere e sulla cenere”. Solo così verrà infine restituito alla sua antica felicità nel godimento di beni due volte superiori a quelli che aveva avuto precedentemente.
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Visse infatti ancora altri centoquarant’anni e “vide i suoi figli e i figli dei suoi figli fino alla quarta generazione e morí vecchio e pieno di giorni”.
Giovanni Bernardi
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