San Oscar Romero fu un vero e proprio martire della fede, che testimoniò con profonda spiritualità e con immenso amore per il popolo sottomesso e oppresso.
Monsignor Romero nasce nel 1917 a Ciudad Barrios, nello Stato di El Salvador, terzo di otto figli e di due genitori provenienti da ambienti borghesi. A quattro anni visse una dura malattia, che contribuì alla formazione del suo carattere solido ma anche molto introverso. Fin da piccolo, dopo la guarigione, si impegnò molto nell’aiutare la famiglia che stava vivendo un momento difficile dal punto di vista economico.
L’amore per Dio e per la preghiera fin da bambino
Dai suoi genitori imparò ad amare profondamente Dio attraverso l’arma della preghiera. Da giovane diventa apprendista falegname, ma la sua propensione allo studio e alla preghiera colpiscono così tanto il sindaco, e proprio a lui il giovane Oscarito confidò di voler diventare sacerdote.
Il suo Paese stava vivendo una fase dolorosamente sanguinosa, e Oscar entra in seminario. Lì trascorre gli anni della sua formazione e impara ad aprirsi agli altri, in particolare attraverso la musica, passione trasmessagli dal padre. Viene inviato a Roma per proseguire gli studi, dove venne ordinato sacerdote nel ’42, perché la guerra mondiale non gli permise di tornare a El Salvador.
Le prime impressioni su di lui che provocano molti nemici
Tornato in patria, diventa rettore del seminario interdiocesano di San Salvador, direttore di riviste pastorali e segretario della Conferenza Episcopale dell’America Centrale e di Panama. Spiritualmente, era un religioso molto vicino all’Opus Dei, e nel 1970 diventa ausiliare del vescovo di San Salvador, dove veniva considerato un conservatore. Quando venne nominato arcivescovo di San Salvador, subito si accorse di avere molta ostilità intorno.
Un vescovo “spirituale” e completamente “dedito agli studi” non sembrava adatto alla causa verso il sociale, e per il primato dei poveri intrapreso dal suo predecessore. L’impegno sociale e politico, per molti, rischiava di andare in fumo per lasciare spazio a una pastorale, a loro detta, troppo spirituale e disinteressata alle logiche del mondo.
I segnali forti che il vescovo diede fin dal primo momento
Da subito monsignor Romero rifiutò tutti i beni terreni, dalla Cadillac fiammante al sontuoso palazzo di marmi che gli viene offerto. Non presenzia alla cerimonia di insediamento del dittatore. In poco tempo tutti videro come il suo rigore, la sua austerità e la sua caratura morale, che univa profonda spiritualità e amore speciale e profondo per i poveri, era destinata a lasciare il segno.
In quegli anni, infatti, gli squadroni della morte uccidevano contadini e preti impegnati, il popolo era oppresso e sfruttato, il vescovo capì che era il momento di prendere una posizione forte e chiara. Subito istituì una Commissione per la difesa dei diritti umani, mentre le sue messe sono sempre più affollate. Lui non risparmia mai pesanti denunce dei crimini di stato che ogni giorno si compiono.
La drammatica morte sull’altare e quelle parole spiazzanti
Così pian piano i vescovi cominciarono ad accusarlo dell’esatto contrario, di incitare cioè alla rivoluzione e alla lotta contro il potere precostituito. Lui sa che sta rischiando grosso ma sa altrettanto bene che l’amore di Gesù viene prima di ogni cosa, e non si ferma nemmeno di fronte al martirio. “Uno non deve mai amarsi al punto da evitare ogni possibile rischio di morte che la storia gli pone davanti”, dice. “Chi cerca in tutti i modi di evitare un simile pericolo, ha già perso la propria vita”.
Il giorno della sua ultima predica in cattedrale, prima di essere ucciso sull’altare il 23 marzo 1980, gridò: “Nel nome di Dio e del popolo che soffre vi supplico, vi prego, e in nome di Dio vi ordino, cessi la repressione!”. Il sicario che si era intrufolato nella cappella dell’ospedale, dove Romero stava celebrando, gli sparò dritto al cuore, mentre il vescovo stava alzando il calice al momento dell’offertorio.
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Le ultime parole pronunciate durante la celebrazione furono: “Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci spinga a dare anche il nostro corpo e il nostro sangue al dolore e alla sofferenza come Cristo; non per noi stessi ma per dare al nostro popolo frutti di giustizia e di pace”.
Giovanni Bernardi