La prima lettura di oggi ci riporta alle profezie di San Paolo e ci parla di una realtà che, purtroppo, oggi pare essere più presente che mai.
Quella cioè di falsi profeti che avanzano nella società e, tristemente, anche nella Chiesa. Proponendo una pastorale e una dottrina cucita su misure dell’uomo, delle loro personali ambizioni e convinzioni, distanti però dal Vangelo. Una parola cioè annacquata e umana, che non sa di vita eterna ma piuttosto di aspirazioni terrene e mondane.
Nella seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo, si legge infatti (2Tm 4,1-8): “Figlio mio, ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole“.
Sono le ultime Lettere dell’epistolario paolino, chiamate Lettere Pastorali. Il nome loro attribuito è dovuto al fatto che sono state inviate a singole figure di Pastori della Chiesa. Nello specifico, due sono dirette a Timoteo, e una a Tito, due collaboratori stretti di san Paolo. Sull’agenzia Sir, Anna Paolino scrive che San Paolo vedeva in Timoteo quasi un suo alter-ego. Per questo, gli affidò missioni molto delicate e importanti.
Pensiamo ad esempio a quelle in Macedonia, a Tessalonica o a Corinto (rispettivamente At 19,22; 1 Ts 3,6-7; 1 Cor 4,17; 16,10-11). Scrisse anche un elogio molto lusinghiero nei suoi confronti. In cui si legge: “Io non ho nessuno di animo uguale come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano” (Fil 2,20).
Timoteo fu il primo Vescovo di Efeso, stando a quanto viene riportato all’interno della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del IV secolo. Lo stesso destino di essere molto caro a San Pietro, fu quello di Tito. Che viene definito dall’Apostolo “pieno di zelo… mio compagno e collaboratore” (2 Cor 8,17.23). O ancora, “mio vero figlio nella fede comune” (Tt 1,4).
Incaricato di due missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto, il risultato di queste rincuorò molto San Paolo. Tito inoltre, secondo la lettera a lui inviata, divenne Vescovo di Creta. Queste due Lettere indirizzate a questi due Pastori rivestono un ruolo molto particolare all’interno del Nuovo Testamento.
Gran parte degli studiosi di esegesi biblica sostengono che le lettere non sarebbero state scritte da San Paolo in persona, ma al contrario la loro origine risalirebbe alla “scuola di Paolo“. Per questo, in esse si rifletterebbe la sua eredità lasciata alla nuova generazione.
Con qualche integrazione di scritti o parole pronunciate, stavolta sì, da San Paolo in persona. Si pensa ad esempio alla Seconda Lettera a Timoteo, dove le parole attribuite a San Paolo sembrano così autentiche da essere considerate come pronunciate direttamente da lui.
La condizione della Chiesa che viene tratteggiata in questi testi è però particolarmente diversa dagli anni che caratterizzano la vita di San Paolo, che si definisce “araldo, apostolo, e maestro” dei pagani nella fede e nella verità, e si porge come un uomo che ha ottenuto misericordia. In quanto è proprio Gesù Cristo che, scrive, “ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm 1,16).
Qui incontriamo un punto centrale della questione. San Paolo era un convinto persecutore dei cristiani, e in questi frammenti si presenta invece la magnanimità del Signore verso l’umanità, incoraggiandola verso la speranza e la fiducia nella misericordia del Signore. Egli, nonostante le nostre miserie, può fare cose grandi.
In questo contesto, le lettere alludono all’insorgere di insegnamenti che vanno considerati totalmente errati e falsi (cfr 1 Tm 4,1-2; 2 Tm 3,1-5). La preoccupazione riportata in queste lettere è perciò fortemente attuale e moderna. La Parola del Nuovo Testamento è infatti parola universale e di vita eterna, per questo risuona ai nostri occhi come totalmente indirizzata a noi.
Nello specifico, si parla ad esempio di chi pensava che il matrimonio non fosse i realtà una cosa buona (cfr 1 Tm 4,3a). Una mistificazione che ci riporta cioè direttamente all’attualità, in cui la fedeltà alla famiglia è spesso sbeffeggiata e oltraggiata, quando non esplicitamente avversata.
La parola ci invita quindi anche a rifiutare una lettura delle Scritture come un testo che desta interesse storico ma che non parla a noi oggi nella nostra vita, quindi non viene letta come ciò che è: parola dello Spirito Santo in cui ascoltare la voce del Signore, e conoscere la sua presenza nella storia.
In queste lettere verranno poi anticipati anche altri errori, come ad esempio lo Gnosticismo (1 Tm 2,5-6; 2 Tm 3,6-8). La lettura della Sacra Scrittura è una lettura che invece viene considerata realmente come “ispirata” e proveniente dallo Spirito Santo, da cui essere “istruiti per la salvezza”.
Questa, in quanto in diretto collegamento con lo Spirito Santo, permette di trarne luce “per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia” (2 Tm 3,16). Affinché “l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tm 3,17).
Un altro richiamo è al buon “deposito” (parathéke) del Vangelo, con il quale viene indicata la tradizione della fede apostolica, custodite per il tramite dello Spirito Santo che abita l’uomo. Il deposito di cui si parla è la somma della Tradizione apostolica e il criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. La Tradizione dell’annuncio apostolico è cioè la chiave di lettura per capire il Nuovo Testamento.
Scrittura e Tradizione, cioè Scrittura e annuncio apostolico, arrivano quasi a fondersi, fino a formare insieme il “fondamento saldo gettato da Dio” (2 Tm 2,19). Un annuncio che diventa necessario per comprendere la Scrittura e cogliere la voce di Cristo.
Essendo cioè “tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti” (Tt 1,9). Alla cui base c’è la fede nella rivelazione storica di Dio e della sua bontà, che in Gesù Cristo ha manifestato in maniera concreta il suo “amore per gli uomini”.
Mentre in realtà si intravede il cammino netto della comunità cristiana, con un’identità molto ferrea e salda nel prendere le distanze da interpretazioni erroneo e incongrue, e ancorando il suo linguaggio all’essenzialità della fede, sorretta dalla netta corrispondenza alla verità. La fede è verità che ci parla dell’uomo, di Dio e dei comportamenti da assumere. Una verità definita “colonna e sostegno” (1 Tm 3,15). Che si concilia con l’essere comunità aperta, dal respiro universale, che prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado.
Affinché questi giungano alla conoscenza della verità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”, perché “Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2,4-5).
Per questo, ancora oggi è necessario pregare il Signore e San Paolo affinché possa fare in modo che i cristiani si caratterizzino sempre più, in confronto alla società contemporanea in cui sono inseriti, come membra vive della “famiglia di Dio”. Rifiutando falsi insegnamenti e falsi profeti, volti a distrarre la fede e il cammino dell’uomo verso la verità rivelata da Gesù Cristo.
Giovanni Bernardi
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