In questi giorni penso spesso ad uno dei brani del “Diario” di suor Faustina Kowalska, il cui si racconta il suo intimo dialogo con Dio: “Vidi Gesù inchiodato sulla croce. Dopo che Gesù era rimasto appeso per un momento, vidi una schiera di anime crocifisse come Gesù. E vidi una terza schiera di anime e una seconda schiera di anime. La seconda schiera non era inchiodata sulla croce, ma quelle anime tenevano saldamente la croce in mano. La terza schiera di anime invece non era né crocifissa, né teneva la croce in mano, ma quelle anime trascinavano la croce dietro di sé ed erano insoddisfatte. Allora Gesù mi disse: “Vedi, quelle anime, che sono simili a Me anche nella sofferenza e nel disprezzo, le stesse saranno simili a Me anche nella gloria. E quelle che assomigliano meno a Me nella sofferenza e nel disprezzo, le stesse assomiglieranno meno a Me anche nella gloria.”. ”.
Non ho potuto fare a meno di collegare questo brano al “frastuono” suscitato dalla morte per eutanasia di DJ Fabo.
Anche il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquino, si è trovato in difficoltà in questi giorni, poiché si è visto recapitare una serie di lettere sull’argomento, a cui cercare di dare una risposta.
Ecco un breve stralcio dell’intervento del signor Tarquinio e, a seguire, due delle lettere pervenutegli (in parte):
“ … E mi fermo ad ascoltare le voci “dal basso”. Le voci, cioè, di quanti con fiducia e umiltà si spogliano dei loro “poteri” e davanti al colpo di una morte procurata ed esibita come prova di libertà e di dignità, scrivono a un giornale per ferita ricevuta, per puro dolore, per dolente solidarietà, per laica preghiera, per semplice amore. Ascolto e capisco, una volta di più, che se davvero pensassimo di avere potere sulla morte e di morte, allora sarebbe la morte ad aver preso potere su di noi. E non può darsi, non può darsi …”.
Il deputato Lorenzo Dellai, ha scritto
“Caro direttore, il clamore e l’emozione che il caso di Fabiano Antoniani sta suscitando sono ben comprensibili. Nessuno può sentirsi indifferente alle questioni umane, etiche e giuridiche che esso fa sorgere. E tuttavia, dall’emozione di un caso estremo così doloroso non è affatto detto che possa derivare una buona legge. Per ora, ne deriva piuttosto un grande polverone politico-mediatico, che mescola assieme cose diverse e agita principi anche inquietanti. Sentivo ieri, durante una trasmissione radiofonica, una sdegnata signora che lamentava l’assenza in Italia di una legge a favore del suicidio assistito con la seguente motivazione: “Come si fa a parlare di difesa della vita nei casi come quello di Fabo? Che razza di vita è?”. Mi chiedo: come può lo Stato definire con Legge i casi nei quali la “vita” non è “vita” e dunque può essere soppressa a richiesta? Si può caricare in capo alla Legge il compito di risolvere tutti i misteri della vita delle persone, ivi compreso il mistero terribile della sofferenza e della decisione di “farla finita”?”. (…)
Don Sandro Lagomarsini, ha scritto
“Caro direttore, solitamente non sento il bisogno di fare aggiunte all’ottimo lavoro di informazione e di formazione svolto dal nostro giornale sui temi etici. Ma oggi sento il dovere di aggiungere la mia parola di disapprovazione nei confronti della “danza macabra” imbastita da giornalisti e opinionisti attorno a un suicidio assistito. Espressioni come “tradito dall’Italia”, “morte libera e dignitosa”, “determinazione della propria vita”, quando le leggo o le ascolto su giornali tv di solito sensibili alle ingiustizie sociali e alle sofferenze dei migranti, mi creano uno sconcerto a cui non trovo ragionevoli risposte. Non credo che sia in buona fede chi equipara l’eutanasia alle “dichiarazioni anticipate di trattamento”, ma, forse, alcuni operatori dell’informazione si esprimono male perché non sanno che cosa è la morte e che cosa può renderla veramente “più leggera”. Ho assistito per la prima volta, nel 1963, un giovane morente. Era affetto da paralisi progressiva, come si chiamava allora. I familiari non ressero e restai io, fino alla fine, a tenergli la mano. La dignità si conserva, dicono i “diritti del morente”, quando la persona non viene lasciata a morire “sola”. Vent’anni dopo cercai di convincere il medico curante ad assicurare l’idratazione di una donna, ormai incosciente, in una casa isolata sulla montagna. Allora non era possibile farlo. L’agonia durò oltre una settimana, ma la famiglia ebbe il sostegno continuo di qualcuno della comunità. Fu degna anche la morte di quell’agricoltore che crollò improvvisamente nel suo campo, in una calda giornata estiva; subito chiamato, unsi con olio quel corpo prezioso di battezzato, dal quale la vita non era ancora del tutto scomparsa. (…) La “carta della persona morente”, che viene consegnata agli operatori sanitari, dice che il malato “ha diritto di aspettarsi di ricevere una cura medica e infermieristica continua, anche se gli obiettivi di cura devono essere modificati in obiettivi di confronto”. Se questo programma viene rispettato e attuato sempre meglio nel nostro Paese, con che coraggio qualche parlamentare ha detto in questi giorni di vergognarsi di essere italiano?”.
Scegliere di morire per non accettare la propria Via Crucis significa non sentire il supporto della fede. Umanamente si può comprendere, ma ferisce il cuore, come se a non farcela, a rimanere saldi, fossimo stati anche noi. Lo dimostrano i tanti messaggi di incoraggiamento inviati a DJ Fabo che sono passati inosservati quasi.
Preghiamo almeno che la sua morta non venga ancor più strumentalizzata, da politicanti d’occasione.