Santa Ildegarda di Bingen, proclamata da Benedetto XVI Dottore della Chiesa il 7 ottobre 2012 e che la liturgia ricorda sul calendario dei santi il 17 settembre, nasce a Bermerscheim, non lontano da Magonza, nel 1098, da genitori nobili che la avviano alla vita religiosa, scegliendo per lei la reclusione fin da bambina nella cella di Jutta di Spanheim, monaca eremita da cui fui educata alla vita religiosa; tale luogo, dipendente dal monastero benedettino di Disbodenberg, suscitò interesse e la popolazione di monache crebbe al punto che quando Idelgarda prese i voti, nel 1113 circa, la cella si era ormai trasformata in una piccola comunità, quasi un secondo monastero annesso al primo, di cui ella prese la guida nel 1136.
Caratteristica singolare della vita della religiosa fu soprattutto la sua capacità di ricevere visioni divine; si tramanda che la prima visione sia avvenuta a 5 anni, ma la vera svolta fu ben più tardi, a 42 anni, come lei stessa ricorda nella sua prima opera profetica, Scivias (acronimo di Scivo vias Domini): “Si manifestò una luce ignea abbagliante, che venendo dal cielo che si era aperto, infiammò completamente il mio cervello e come una fiamma che non brucia ma riscalda, detto fuoco completamente al mio cuore e al mio petto (…). E immediatamente diventai sapiente nell’interpretazione dei libri sacri”. La monaca indulgerà, riluttante a narrare le sue visioni “non per ostinazione ma per umiltà”, e così le capiterà di cadere malata e si sentirsi punita da Dio finché la voce tornerà a ripeterle: “Tu devi dire e scrivere ciò che vedi e odi”. Infine, ottenuto il permesso dell’abate, comincerà a scrivere il contenuto delle visioni con l’aiuto del più abile scrivano del monastero, il monaco Vomar, che diverrà punto di riferimento e amico. Consapevole del sospetto che tali esperienze avrebbero suscitato, Ildegarda ribadisce a più riprese che le visioni non sono né sue immaginazioni né sogni notturni. Nei tre testi profetici – Scivias, Liber vitae meritorum e Liber divinorum operum – la donna detta le sue visioni, le analizza nella modalità in cui si manifestano, per interpretarne poi i significati: la terza e più ambiziosa (1163) presenta una sintesi del suo pensiero teologico del sapere fisiologico e delle speculazioni sul funzionamento del cervello e dell’universo, in cui il rapporto tra l’uomo e l’universo è letto come quello tra microcosmo e macrocosmo. L’uomo, dunque, al centro della creazione armonizza la propria volontà con quella di Dio, impressa nel suo cuore e tramandata dalle Scritture.
Qui ella non esita a misurarsi con Agostino e Giovanni Scoto nel commentare i fondamenti della Rivelazione, il Prologo del Vangelo di Giovanni e il racconto di Genesi. La pluralità delle sue doti è tale da spingerla in molte direzioni: compone liriche religiose, raccolte nel Symphonia harmoniae caelestium revelatiunum, visita e cura gli ammalati, tanto che la sua bravura le procurò rapidamente la fama di guaritrice. La sua abilità medica appare evidente nel suo Causae et curae, che offre un’interessante trattazione di anatomia, fisiologia, patologia e mostra il superamento della tradizione dicotomia tra anima e corpo. Il suo carisma sollecitò indagini che arrivarono fino al papa Eugenio III (1145 – 53): la commissione di controllo da lui inviata riferì della sua convinzione in merito all’autenticità delle visioni e condusse in lettura al Papa, impegnato nel Sinodo di Treviri, parte dello Scivias, ricevendone in cambio l’esortazione a riportare con completezza le visioni che ella riceveva di volta in volta. Ciò nonostante, i rapporti di Ildegarda con le autorità maschili del monastero, come quelle clericali con cui entrerà in contatto diretto, saranno spesso conflittuali, come nel caso della sua fondazione, dietro il monito della “Vera Voce”, di un nuovo monastero a Rupertsberg, nel 1151, e poi ad Eibingen, che conquistò l’indipendenza per la comunità delle monache , atto poco gradito a chi avrebbe voluto conservare il privilegio di ospitare le monache e le loro ricche doti di figlie di famiglie nobili locali.
L’intervento riformista della donna nella Chiesa del tempo risulta forte e tenace: ella propone un nuovo ideale di vita monastico, non più rigorosamente claustrale, nel tentativo di risvegliare le coscienze di un’epoca di profonde innovazioni. La condizione di Ildegarda era assai singolare per i tempi, anche a prescindere dalle visioni; tra il 1158 e il 1163 viaggia per monasteri, tenendo discorsi nelle riunioni di Capitolo e addirittura prediche e conferenze pubbliche in cattedrali prestigiose, quali quelle di Colonia e Treviri, evento assai raro per una donna all’epoca; inoltre compie esorcismi, e, infine, intrattiene relazioni e corrispondenza con personaggi importanti, anche lontani dal mondo della Chiesa, come, per esempio, Federico Barbarossa. Muore nel 1179 alla bella età per l’epoca di 81 anni.
Anche se non importanti in modo assoluto per la comprensione della “medicina”, sono tuttavia quanto mai interessanti per la valutazione della personalità d’Ildegarda le sue argomentazioni sulla sodomia. Non solo per il fatto che la badessa, immune da ogni schifiltosità, chiama chiaramente per nome le deviazioni sessuali, ma anche perché permette di chiarire le conoscenze, che al suo tempo non erano assolutamente poche, e certamente non solo teoriche, sulle più varie perversioni, come quando scrive sulla situazione prima del diluvio universale: “Ma dopo che gli uomini ebbero dimenticato il loro Dio, si comportarono più alla maniera degli animali che secondo l’ordinamento divino. Accadde così che molti amavano più gli animali che i loro simili, tanto che maschi e femmine si mescolavano ed avevano rapporti con animali in modo tale che l’immagine di Dio era da loro già quasi completamente deformata. L’intera specie umana si trasformò in esseri mostruosi; parecchi si conformarono al modo di vivere di animali selvaggi e ne imitarono anche le voci; e così furono visti correre qua e là, emettere urla e vivere vegetando. Prima del diluvio universale, infatti, gli animali selvaggi ed anche gli altri animali domestici non avevano ancora la selvatichezza che avrebbero avuto in seguito. Non avevano paura dell’uomo, così come l’uomo non aveva paura di loro; e neppure si spaventavano reciprocamente. Ed anzi gli animali, selvaggi e domestici, si intrattenevano volentieri con l’uomo e l’uomo con essi: nella loro condizione primitiva, infatti, avevano avuto la loro origine quasi nello stesso tempo. Sia gli animali selvaggi che quelli domestici leccavano carezzevolmente gli uomini, come anche l’uomo accarezzava gli animali. Ma per questo accadde poi che essi si amassero reciprocamente e fossero attaccati gli uni agli altri sempre di più in modo innaturale”. La monaca è estremamente dura riguardo il peccato di sodomia e nel “libro dei meriti di vita” scrive: “Questo peccato è una turpe perversione: per arte diabolica si è insinuato nell’uomo, esattamente come la morte entrò nell’uomo con la caduta di Adamo quando questi si allontanò da Dio. Dio infatti creò l’uomo destinandolo a un grande onore e a un nome glorioso, ma il serpente lo ingannò, l’uomo accettò il suo suggerimento e così perse la facoltà di comprendere il significato del verso di ogni animale. Questo peccato è la forza del cuore del demonio; per cui persuade gli uomini a mutare una pratica naturale in un atto da bestie, e a operare sulle loro persone delle oscenità, poiché il demonio, a causa dell’odio originario che ebbe nei confronti della fecondità della donna, ancora la perseguita affinché non porti frutto, mentre preferisce che gli uomini si contaminino con pratiche contro natura. E poiché Dio volle che il genere umano fosse procreato dalla donna, è un grave delitto che l’uomo disperda il proprio seme quando si macchia di questo peccato”.
Don Marcello Stanzione.