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Siria: se non se ne parla, non vuol dire che lo scempio sia finito

Siria la guerra non è finita, uniti in preghiera

Mi arrovello spesso, con impotente disappunto, su quanto siamo oramai assuefatti alle foto di bambini mutilati dalla guerra o ammazzati (come in Siria), alle facce strazianti dei profughi che si azzardano, a nuoto o con mezzi -lo sappiamo- d’occasione, ad attraversare il Mediterraneo in cerca di salvezza, ai tanti dolorosi pianti di famiglie dimezzate da una guerra che non hanno chiesto.

Il notiziario è diventato la gabbia del criceto, quella con la ruota che gira all’infinito. Forse il criceto è convinto che le sue fatiche saranno un giorno ripagate e che arriverà, prima o poi, in un luogo fantastico. Non sa che sta facendo solo esercizio fisico e che non conoscerà mai nulla di più, di ciò che già conosce.
E’ triste pensare che quei criceti siamo noi, illusi di padroneggiare la realtà e di poterci permettere di non averne mai abbastanza dell’orrore e della disperazione altrui.
Se fossimo noi i profughi, al loro posto, ci spetterebbe la stesso trattamento dalle istituzioni, vediamo di non dimenticarlo. Non siamo speciali, solo graziati dal momento storico.

Poi leggo del dottor Emile Katty, che opera in Siria, e i miei pensieri non si quietano, ma fomentato ancora di più l’angosciante impotenza.
Katty possiede il passaporto europeo (avendo studiato in Europa), oltre a quello siriano (essendo nato in Siria), ed è console onorario della Polonia, potrebbe quindi operare in qualunque posto, in uno qualsiasi degli ospedali occidentali, invece ha scelto la sua città di origine: Aleppo.
Li, dal 2003, insieme a Monsignor Giuseppe Nazzaro (un tempo custode in Terra Santa), ha dato origine all’ospedale Al Rajaa (La speranza).
A tutt’oggi lavora in quell’ospedale, in situazioni -si può facilmente immaginare- si estrema difficoltà, con soli sessantacinque posti letto.

L’ospedale è nel quartiere New Aleppo, proprio nella direzione degli attacchi jihadisti.
Ad Aleppo Ovest, invece, gli ospedali privati sono una quarantina, di cui solo tre con la strumentazione per più emergenze, come Al Rajaa.
In questo periodo di guerra, ovviamente le emergenze si sono centuplicate e quindi si risparmia sul possibile (luci, riscaldamento, spese varie). Come spesso però accade in queste circostanze, al danno si unisce la beffa, perché ad Al Rajaa ci sono delle apparecchiature inutilizzate, per mancanza di pezzi di ricambio, che invece potrebbero salvare molte vite umane: apparecchiature per l’anestesia neonatale, mezzi precisissimi per la radiologia, che consentirebbero di individuare rapidamente la posizione di una pallottola nel corpo.

Il dottor Katty non si capacita -e noi con lui- del fatto che tante persone avrebbero potuto salvarsi, se solo USA e UE non avessero decretato l’embargo (il blocco e il sequestro di navi mercantili estere, per ragioni belliche), tanto più che ad Al Rajaa non si curano militari (questi hanno i loro ospedali), ma vittime innocenti di una guerra senza fine: i civili, quelli come noi!

“Le potrei raccontare storie quasi incredibili -dice il dottor Katty in un’intervista. Per esempio, due mesi fa, ci hanno portato un venditore ambulante che stava con la sua bancarella davanti alla moschea che è qui, in questo stesso quartiere. Era stato colpito dalle schegge di un missile e per lui, purtroppo, non c’era più nulla da fare. Tre giorni dopo è morta anche la moglie, fulminata in casa da un proiettile vagante. Ecco, noi ci occupiamo di persone come queste. E perché non ci permettono di curarle? Di che cosa sono colpevoli? Lei sa rispondere? Lo chiedo a tutti i non siriani che incontro e non ho ancora trovato uno che sapesse rispondere”.

“Io sono anche membro dell’Ordine dei Medici Ortopedici di Francia. Un mese fa ho partecipato a Parigi a un convegno internazionale. E ho detto all’assemblea: qui nessuno si sarebbe sognato di bloccare le cure alle vittime del Bataclan. E allora perché a noi medici siriani viene impedito di curare le persone ferite dagli stessi terroristi che colpirono al Bataclan? Sono stati tutti zitti”.

Antonella Sanicanti

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