È la tentazione delle coscienze troppo scrupolose: sentirsi in difetto un po’ per tutto, andare in crisi al solo pensiero di aver (forse) commesso un peccato.
A vedere peccati dove non ce ne sono si rischia però di trasformare la vita in una paralizzante litania di rimorsi o, peggio ancora, in una sorta di autoflagellazione permanente. Come uscirne? Cominciando a smetterla di considerare il peccato per quello che NON è: la violazione di una regola astratta, l’infrazione di un codice di norme.
Abbiamo visto come uno dei mali peggiori della nostra epoca sia l’assenza del senso di colpa. Ma come la colpa può essere sottovalutata, minimizzata, perfino cancellata, si può cadere anche nell’eccesso opposto. Arrivando cioè a considerare la colpa non per difetto, ma per eccesso: vedere colpe dove non ci sono, enfatizzarne il peso, aumentarne a dismisura il numero. In questo caso, al contrario del famoso detto andreottiano, si pensa male e non ci si azzecca mai.
Una tentazione che può toccare tutti. Può succedere al religioso tormentato dal pensiero di aver recitato più o meno bene tutto il breviario. O al semplice fedele che va in crisi se si “perde per strada” un’Ave Maria nel recitare la decina del rosario. Ma c’è anche chi controlla continuamente se ha ben chiuso i rubinetti dell’acqua o se ha spento le luci di casa. E nel campo dei peccati non manca chi non finisce mai di esaminare a fondo la propria coscienza e vive nel timore di commettere un peccato anche solo di pensiero.
Scrupolo, cos’è?
In sostanza, è il ben noto campionario degli scrupoli di coscienza. Che possono diventare, nei casi più gravi, una vera spina nel fianco, un tormento assillante. Infatti il latino scrupulus sta per «sassolino appuntito» e in senso figurato indica proprio la spina nel fianco, il dubbio tormentoso, l’apprensione.
Lo scrupolo è un senso di colpa spinto all’eccesso, che paralizza e impedisce di prendere decisioni. Nei casi peggiori diventa una nevrosi ossessiva che fa precipitare in uno stato di penosa angoscia, porta a dire e a fare cose che rasentano l’assurdo e il futile.
Il senso di colpa è una sorta di bussola necessaria per ricordarci che stiamo uscendo dalla retta via. Ma non equivale a un’autoflagellazione. Anche sul piano semplicemente naturale, quello della psicologia, il senso di colpa è utile. Lo ricorda, in un interessante articolo uscito sul francese Le Figaro, lo psichiatra e psicoterapeuta Jean Cottraux.
Utilità del senso di colpa
In sé dunque il senso di colpa non ha nulla di tossico, anzi. È perfino indispensabile per vivere in società: è considerato uno dei “motori” del cosiddetto comportamento prosociale, cioè l’insieme di tutti quei comportamenti benefici e positivi per gli altri. Come aiutare il prossimo, prendersi cura di qualcun altro, condividere, cooperare, sentirsi solidali.
Insomma, tutto ciò che avvantaggia il prossimo andando a scrivere un segno «più» nella sua vita. Segno, tra l’altro, della vera intelligenza, come spiegava lo scrittore e economista Carlo Cipolla: le persone intelligenti sono quelle che coi loro comportamenti riescono ad avvantaggiare tutti: sé stesse e gli altri. All’esatto contrario, la stupidità svantaggia tutti.
Il cammino fruttuoso: dalla colpa al perdono
Ma per tornare a noi, questa catena benefica di comportamenti virtuosi può essere interrotta? Sì, e sappiamo bene quando. La catena della solidarietà si spezza quando facciamo oggettivamente un torto ai nostri fratelli in umanità. Colpevolizzarsi allora può essere la via maestra per spingerci a riparare il danno che abbiamo commesso, a ripristinare la relazione che avevamo interrotto per colpa nostra.
Il senso di colpa è sano se porta alla richiesta di perdono, alle scuse. «Riconosciamo il suo carattere patologico solo quando è eccessivo o quando è carente», spiega lo psichiatra Cottraux. «Una fortissima tendenza al senso di colpa è uno degli ingredienti della depressione o dei disturbi d’ansia. Al contrario, la sua assenza può portare alla psicopatia o indurre comportamenti criminali».
Anche papa Francesco, nell’udienza generale del 25 gennaio scorso, ha messo in guardia contro il peso opprimente dei sensi di colpa, cosa ben diversa dal riconoscimento lucido del proprio peccato. Come fare per uscire da questa autoflagellazione permanente?
In fondo, che vuol dire peccare?
Come già fatto altre volte, torniamo ad ascoltare le sagge parole del vescovo americano Fulton Sheen. Che nel suo La pace dell’anima ci ricorda che peccare è ben più che trasgredire una legge. Il peccato non è la negazione di un codice di regole astratte: è ripudiare una persona verso la quale ci sentiamo obbligati per la sua bontà e il suo amore. «Il peccato è l’affronto di uno spirito a un altro, un oltraggio all’amore».
Perciò il senso del peccato può essere sano solo se abbiamo coscienza di un Dio personale. Perché poche cose sono peggiori che accostarsi all’amore di Dio con lo spirito del vecchio Adamo, preoccupato solo di obbedire a delle regole.
Il senso di colpa nasce dal dolore di aver ferito qualcuno che amiamo. Allora il problema vero diventa: come fare a cancellare il peccato, a ricreare un rapporto spezzato e ritrovare la pace? «Occorre amore per accorgersi che l’amore è stato offeso», ci dice Fulton Sheen. Ma la bella notizia, continua, è che «l’Amore Divino ricompensa sempre col perdono questo riconoscimento; e una volta accordato il perdono, una maggiore intimità cementerà i riallacciati rapporti». Come fanno gli angeli del cielo che, come ha detto Gesù, gioiscono più per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non sentono bisogno di pentirsi.
Pentirsi? Come “sintonizzarsi” sulla frequenza giusta
Dio ci perdona in anticipo, spiega il vescovo americano, prima ancora del nostro pentimento. La nostra contrizione, il nostro pentimento a che servono allora? Semplicemente a rendere veramente efficace il perdono nella nostra vita. «È la nostra contrizione che rende valido il perdono. Il padre aveva già perdonato il figliolo fin dal primo momento. Ma il perdono non è diventato efficace finché il figliolo non si è pentito di avere rotto i rapporti col padre e non ha cercato di ripristinarli».
In altre parole, insiste Fulton Sheen, «finché mancherà il caldo desiderio di comunicare con Dio in modo diverso da quello timoroso e distante cagionato dal peccato, questo non può essere perdonato». Dio Padre dunque non è un giudice che non aspetta altro che coglierci in fallo, con un codice di regolette e codicilli alla mano.
È un po’ come succede quando c’è della musica nell’aria. Noi non la sentiamo se non sintonizziamo la radio sulla frequenza giusta. Così non “captiamo” il perdono finché la nostra anima non prova dolore e non forma il proposito di emendarsi e di non peccare più.
Ma Dio è sempre alla ricerca della pecorella smarrita, pronto a far festa per averla ritrovata. Si può dire che non aspetti altro, il Dio della gioia. Sta a noi sintonizzarci sulla musica di Dio e poter così dare via ai festeggiamenti per aver riabbracciato il Padre.
Mi raccomando allora: stay tuned!