C’è chi dice che siano otto, chi dice che siano peccati, chi dice che siano spiriti malvagi. Ma cosa sono davvero i sette vizi capitali?
I vizi capitali sono desideri non ordinati verso il Bene Sommo, cioè verso Dio; la tradizione cristiana, che li ha codificati sulla base della sapienza dei filosofi dell’antichità, insegna che sono all’origine di tutti i peccati.
La denominazione di “vizi capitali” risponde al fatto che essi vengono considerati come abitudine o propensione (alcuni di essi non superano la colpa veniale); quando invece essi vengono considerati come atti si parla di peccati capitali. Prima del vizio vi è l’atto peccaminoso: è la ripetizione a creare l’abitudine e quindi il vizio stesso.
Questi sette che andremo ad enumerare, ritenuti “capitali”, rappresentano i più gravi, che riguardano la profondità della natura umana. Possono portare alla corruzione dell’uomo, poiché si impadroniscono della vita svuotandolo completamente delle virtù dello spirito, che invece dovrebbero accompagnarlo.
La ricorrenza e la gravità del mancato dominio di questi vizi, sostiene San Tommaso D’Aquino, sono date dal fatto che colui che è dominato da qualche vizio capitale è capace di commettere qualunque peccato o delitto pur di soddisfare la sua viziosa passione.
La Bibbia nomina molte volte i tutti vari vizi, anche se non è presente la successiva sistemazione settenaria.
I fondamenti per enumerarli sono stati forniti dai testi Sir 10,13; 1Tim 6,9-10; 1Gv 2,16. Si legge in Siracide 10, 13: “Principio della superbia infatti è il peccato;
chi ne è posseduto diffonde cose orribili”. Per questo i primi scrittori che stilano una classifica di tali dannose abitudini interiori, riconoscono la superbia come prima fonte universale, sulla base del Siracide, del peccato, come “inizio di tutti i peccati”. Dietro la superbia si susseguono gli altri.
Un primo elenco dei vizi capitali fu redatto intorno al IV secolo, ad opera di Evagrio Pontico, un monaco scrittore e asceta cristiano greco, assieme al monaco Cassiano. A Evagrio si deve questa prima classificazione dei vizi capitali, e delle armi spirituali per combatterli, anche se allora se ne enumeravano otto.
Evagrio individuò otto “spiriti o pensieri malvagi”: gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia, senza nominare l’invidia.
La tristezza appare come un vizio a parte, poi successivamente associato all’accidia o all’invidia, come accade per la vanagloria che sarà accorpata alla superbia.
In seguito all’inserimento dell’invidia, ne sono stati definiti sette, come li si conoscono oggi. Aristotele li ha definiti gli “abiti del male”, derivati da un ripetersi di azioni, a formare una sorta di “abito” che inclina l’uomo che li indossa ad identificarsi in una certa abitudine, distruggendo la crescita interiore.
I sette vizi capitali come lo conosciamo oggi sono dunque questi:
Il desiderio disordinato di essere superiori agli altri, fino al disprezzo degli ordini e delle leggi. È la radicata convinzione della propria superiorità, reale o presunta, che si traduce in atteggiamento di altezzoso distacco o anche di ostentato disprezzo verso gli altri.
Il desiderio disordinato dei beni temporali, conseguente un costante senso di insoddisfazione per ciò che si ha già e del bisogno sfrenato di ottenere sempre di più con maggiore avidità.
La dedizione al piacere e l’eccessivo attaccamento ai beni terreni, l’incontrollata sensualità, l’irrefrenabile desiderio del piacere sessuale fine a sé stesso, carnalità.
Si tratta della tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio, e del desiderio che ciò che l’altro ha più di sé gli venga tolto, per proprio tornaconto.
Conosciuta meglio come ingordigia, è l’abbandono e l’esagerazione nei piaceri della tavola, perdita totale del senso della misura e quindi della capacità di provare piacere reale per ciò che si sta gustando e che si sta vivendo.
Il desiderio disordinato e distorto di giustizia, che degenera in giustizia personale, nonché in desiderio di vendicare violentemente un torto subito
Inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene, pigrizia, indolenza. Consiste nel lasciarsi andare al torpore dell’animo, fino a provare fastidio per le cose spirituali, e in particolare l’abbandono della preghiera e dell’amicizia verso Dio perché faticosa.
Altro bene è quello proprio del corpo, che è cosi bramato:
Il quarto bene consiste nelle ricchezze, il cui attaccamento e il loro uso non secondo la ragione è causa di avarizia.
In ultimo vi sono tre beni da cui l’uomo rifugge in modo disordinato:
Il proprio bene spirituale, che viene trascurato a causa della fatica, e in ciò consiste l’accidia;
Il bene altrui, che viene rifuggito in quanto va ad intaccare la nostra eccellenza, da cui nasce l’invidia;
E ancora il bene altrui, che, se rifuggito, spinge alla vendetta causando l’ira.
Elisa Pallotta
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