Arianna Szoreznyi è stata deportata ad Aushwitz quando aveva solamente 11 anni, come per tutti gli altri le è stato assegnato un numero 89219 e la sua casacca è stata contrassegnata dal triangolo che segnalava la sua origine ebraica (nonostante la sua famiglia fosse cattolica praticante). In quegli anni terribili ha rischiato per ben sette volte di finire nei forni crematoi, ma il suo destino era un altro e per un motivo o per un altro la sua cremazione venne sempre rimandata.
All’arrivo degli alleati, Arianna era incredula e sconvolta (pesava solo 18 chili) e prima che potesse riprendersi passarono diversi anni, non riusciva a capacitarsi di aver assistito alla distruzione della sua famiglia di essere sopravvissuta a quel massacro. Tutto è cambiato quando a 21 anni (soglia che segnava l’arrivo della maggiore età) ha preso il suo primo impiego alla Rinascente ed ha cominciato a frequentare l’Aned (Associazione ex deportati). La possibilità di confidare quelle terribili sensazioni ed angosce le permise di intraprendere una vita piena e soddisfacente, formò una famiglia ed ebbe tre figli e sette nipoti.
Nel corso degli anni ha scritto un diario (un modo per esorcizzare il trauma esperito alle riunioni dell’Aned) dove ha riportato gli avvenimenti dalla deportazione fino alla liberazione, ma non aveva mai pensato di pubblicarlo. Un giorno, dopo una discussione con un amica, si rese conto che quella scomoda verità non sarebbe più stata raccontata in mancanza di testimoni e si convinse a pubblicare le sue memorie: “ Chi alzerà la propria voce indignata, offesa, quando fra non molto, non ci sarà più alcun testimone?” sottolinea Arianna nel libro.
La speranza è che il ricordo di quanto accaduto serva da monito alle persone per non ripetere mai più quegli sbagli, che le sue parole siano d’esempio a tanti giovani che come i suoi nipoti si potrebbero offrire di alzare la voce in ricordo o semplicemente portare un simbolo di quegli eventi (il nipote Lorenzo ad esempio si è tatuato il numero che la nonna aveva al campo di sterminio).
Nel rispetto della volontà di Arianna Szorenyi vi riportiamo di seguito la sua storia, perché possa ispirarvi. Tutto inizia il 6 giugno del 1944, un funzionario dell’anagrafe si insospettisce leggendo quel cognome (il padre era di origine ungherese) ed effettua una verifica. Il giorno dopo le SS fanno irruzione in casa e cominciano ad urlare e trascinare via lei ed i suoi familiari (Arianna aveva sei fratelli), l’unica a salvarsi è la sorella maggiore Edith che da sposata aveva preso il cognome del marito. La famiglia Szorenyi viene trasferita ad Udine, Sabba ed infine ad Aushwitz, dove le donne vengono separate dagli uomini. Arianna viene separata anche dalla mamma e dalle sorelle e destinata al capanno delle bambine. Sopravvive a tutto, persino all’evacuazione del campo riportando solo un’amputazione dell’alluce entrato in cancrena per il freddo.
Al ritorno in Italia ritrova solo Edith ed il fratello maggiore Alessandro, i genitori e gli altri quattro fratelli non fecero mai ritorno: “Avrei voluto tornare subito ad Auschwitz, per poterli cercare, ero convinto che al mio ritorno li avrei ritrovati a casa e che mi avrebbero detto brava perché ce l’avevo fatta…”. Dopo un anno con la sorella, è stata portata all’orfanotrofio dove è stata educata e cresciuta fino al raggiungimento della maggiore età.
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