L’amore per Gesù non ha età, di conseguenza nemmeno una carica importante come quella di vescovo è necessariamente legata a un fattore anagrafico.
Lo dimostra la vicenda di Christian Carlassare, sacerdote vicentino che a 43 anni è entrato nella storia diventando il il più giovane vescovo del mondo. “Non c’è età per amare”, dice lui interpellato dai giornalisti, ed è più che evidente come una notizia di questo tipo sia una ventata di aria fresca per tutti i cattolici che talvolta vedono le vocazioni in calo e l’età media dei partecipanti alle Messe in aumento.
Il sacerdote vicentino, originario di Schio, è infatti stato nominato da Papa Francesco vescovo della diocesi di Rumbek, nella parte meridionale del Sud-Sudan. Si tratta quindi di un giovane sacerdote missionario che ha deciso di compiere la sua missione in una delle aree più difficili del mondo, il Sud-Sudan. Ora la sua scelta di vita è stata però ampiamente ripagata, consegnandolo simbolicamente alla storia della Chiesa cattolica.
L’incarico non è però arrivato dal nulla, tutt’altro. Si tratta infatti del coronamento per la lunga attività nel Paese africano che Christian porta avanti fin da quando aveva sedici anni. A quella età, infatti, il giovane ha lasciato l’Italia per avviare il suo percorso missionario in diverse parrocchie del Paese africano, per poi approdare nel 2020 nel ruolo di vicario generale della diocesi di Malakal. In un Paese nient’affatto facile, che solo da dieci anni è uno Stato indipendente, e che vive ancora conflitti etnici interni molto forti.
Intervistato dal Corriere della Sera, il neo-presule ha confermato che di certo non si aspettava la nomina, nonostante sapesse che Diocesi era rimasta scoperta e che da tempo la Chiesa era in cerca di un nuovo vescovo. Da quando cioè nel 2011 padre Cesare Mazzolari, l’ex vescovo, è venuto a mancare. Christian, a parte di una breve parentesi durata qualche mese, non ha mai lavorato in quelle terre. “Ma si sa, le vie del Signore sono infinite”, spiega lui, mettendo in luce prima di tutto la “grande opportunità che mi è stata offerta dal Signore”.
Tuttavia, in un Paese come il Sud Sudan, dove più della metà dei cittadini ha meno di 18 anni, il fattore anagrafico conta, eccome. Una persona giovane come lui sicuramente potrà dare un contributo deciso allo sviluppo del Paese. “Viviamo in ambienti molto difficili con spazi vasti, il grande caldo, molte zanzare e forse un giovane riesce ad adattarsi con più facilità”, ha spiegato lui stesso.
La vocazione alla vita missionaria è nata insieme a quella per la vita religiosa, quando nel vicentino si è avvicinato per la prima volta ai comboniani. Da lì è scoppiata la passione per l’Africa. Per quella invece legata a questa particolare area, Christian spiega che è stata Santa Giuseppina Bakhita, sudanese, a fargli scoppiare la scintilla. “Lei fu adottata dagli scledensi e io mi sentivo adottato da questo Paese, al quale cerco di ridare lo stesso contributo che Santa Bakhita ha dato a noi vicentini”, racconta.
Ora però, finiti i convenevoli, c’è da guardare alla dura situazione in cui versa il Paese. I medici e le cliniche sono in numeri assolutamente irrisori e insufficienti. La Chiesa ha molti dispensari, ma non sono sufficienti. L’impegno, spiega il nuovo vescovo, è ampio, e c’è davvero molto da fare. “Ci sono persone che muoiono di malaria, di tubercolosi, di parassiti intestinali e le persone sono così abituate a questi gravi malanni che sentono il Covid come uno si questi”.
La pandemia si è cioè innestata, come in gran parte del resto dell’Africa, in una situazione già complicata. “Per fortuna in Sud Sudan ci sono meno casi rispetto all’Europa: a oggi sono circa duecento al giorno ma meno casi gravi. Però per sottoporsi a tampone bisogna andare nella capitale o in pochi altri centri”.
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Ai suoi occhi, il Sud Sudan è un “Paese di prima evangelizzazione”, dove ” il conflitto e il clima di scontro tra nord e sud ha caratterizzato tutto il Paese fin dagli anni Novanta, creando situazioni difficili di povertà e la diocesi di Rumbek si è presa in carico la sofferenza della gente, anche perché qui c’erano gli ultimi”. Ora, conclude l’intervista il presule, “anche in virtù dell’ultimo conflitto tra le tribù, il nostro lavoro è di affiancare un percorso di riconciliazione e di pace, portando le persone a stare insieme, dando senso di dignità e anche nuovi sbocchi lavorativi”.
Insomma, “c’è molto da fare ma non sono solo. Attorno a me ci sono sacerdoti, religiosi, ma anche laici, persone del posto che hanno bisogno di qualcuno che li faccia stare assieme. Qui si vive l’aspetto umanitario della chiesa, anche perché non c’è evangelizzazione senza sviluppo umano e delle persone, sul fronte sanitario e scolastico”.
Giovanni Bernardi
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