I genitori vorrebbero salvarle la vita, un’altra volta il Tribunale si pronuncia a favore della morte. Dopo Indi, il Regno Unito ci sconvolge ancora.
È evidente, non si può negare la dilagante cultura della morte che si sta radicando oltremanica. A pagarne il prezzo vite fragili, provate. Ora tocca a Patricia. Ma quante persone dovranno ancora morire prima che il mondo si svegli da questo sonno di morte?
Giovane ragazza di 24 anni affetta da anoressia nervosa per il tribunale è libera di morire.
La giovane Patricia soffre di anoressia nervosa da 14 anni ormai. Si è manifestata precocemente. La ragazza a quel tempo aveva solo dieci anni. È una malattia terribile, subdola, che annienta nel corpo e nella mente non solo chi ne soffre ma tutte le persone coinvolte. Patricia entra ed esce dagli ospedali, più di una volta la sua vita è appesa a un filo, è strappata dalle grinfie della morte veramente per un pelo!
Il caso shock
Non sempre lei ha dato il suo assenso, è bastato quello della famiglia. Due anni fa il ricovero che ha generato il caso. Patricia ha un collasso, è ricoverata d’urgenza. Si riunisce un’equipe per stabilire il suo “miglior interesse”. Qua decidono che il suo miglior interesse è morire. Il suo corpo è troppo fragile, ha un indice di massa corporea bassissimo, tra otto e dieci. Qualsiasi intervento sarebbe stato contro producente. Dispongono di staccarle il sondino e dimetterla. È libera di decidere se vivere o morire. Sì perché per loro una paziente con anoressia nervosa non ha nessun condizionamento, ha la stessa autonomia che ho io e che ha qualsiasi lettore, ha una mente equilibrata che sa discernere con oggettività il bene dal male, non soffre una profonda lacerazione interiore per cui il male che fa al suo corpo è un sintomo, un grido che dice: “non lasciatemi sola”. Quindi i medici che fanno? La lasciano sola.
I familiari sanno il pericolo in cui incorre la figlia e non si arrendono e ricorrono alla Legge. A conclusione dell’anno appena trascorso è arrivata la sentenza.
Il giudice Philp Moor ha stabilito che è inutile alimentare forzatamente una persona che ha dichiarato di non voler essere salvata per sempre. Qualsiasi trattamento le procura solo angoscia e turbamento, si legge nella sentenza, per cui non va attuato. Non sarebbe il primo caso ma il decimo negli ultimi anni. Purtroppo non abbiamo dati certi.
L’anoressia nervosa non è dichiarata malattia terminale, eppure il tribunale la considera tale. Ancora una volta si appella al principio di autonomia per il quale ognuno è libero di scegliere se, quando e come morire. Siamo di fronte a un’altra forma di eutanasia. Lo stato lascia morire.
Papa Giovanni Paolo II ci ricordava che l’eutanasia è qualsiasi azione o omissione che nelle sue intensioni procura la morte di una persona. È una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Il Signore dice: Sono io che do la morte e faccio vivere.
La via dell’accompagnamento
È una lezione antica. Già sant’Agostino scriveva con sorprendente attualità che «Non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».
Seguendo ancora Papa Giovanni Paoli II è lecito dire che stiamo dimenticando che la vera «compassione» rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che, come i parenti, dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti, come i medici, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell’Eden: diventare come Dio «conoscendo il bene e il male» (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l’uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l’ingiustizia e per la morte.
Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
Ben diversa, invece, è la via dell’amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. Quante vite dovremo perdere ancora prima che lo impariamo?