Il cambiamento climatico che sta avvenendo spaventa moltissimi, è urgente una soluzione per uscire dal baratro.
In queste ore l’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis) e della sua rappresentante, Diann Black-Lyann, ha diffuso un appello che ha un tono a dir poco disperato, in vista della Cop26, il vertice in cui gli uomini più potenti della terra si incontreranno per discutere di clima e di emergenza climatica. “Stop ai combustibili fossili, è in gioco la nostra vita”, è il senso principale del messaggio, che riporta all’ultimo rapporto dell’International panel on climate change (Ipcc).
Il gruppo in questione riunisce trentanove isole e arcipelaghi sparsi tra Pacifico, Indiano e Caraibi, nel rapporto a cui si fa riferimento si spiega che ormai il riscaldamento globale sarebbe in pratica “irreversibile e inevitabile”, come scrive il quotidiano Avvenire. “Tra venti o trent’anni, la temperatura crescerà di 1,5 gradi”. La battaglia insomma no riguarda solo gli arcipelaghi ma anche buona parte delle aree costiere, che “rischia di sparire per l’aumento del livello del mare e dei fenomeni estremi”.
Al centro della discussione ci sarebbe la volontà, o meno, di eliminare i combustibili fossili. La Climate change conference dell’Onu, cioè la Cop26, si riuniranno a Glasgow il prossimo novembre. C’è chi sostiene che le previsioni sostengono che il balzo degli Oceani, entro la fine del secolo, sarà superiore al mezzo metro, fino quasi a due metri o cinque nel lungo periodo. Con novanta centimetri sparirebbero le intere isole Marshall, e dell’80 per cento della superficie delle Maldive, le terre “più basse” del pianeta, non ci sarebbe più traccia. Ingoiata dall’acqua, che entro il 2050 dovrebbe crescere, sempre secondo gli esperti, tra i dieci e 25 centimetri.
Senza contare che molte isole potrebbero diventare invivibili a causa dell’erosione del suolo, o della morte della barriera corallina. Insomma, uno scenario a dire poco apocalittico. Altri spiegano che per questa stessa ragione le Isole Salomone hanno già assistito all’annegamento di cinque atolli. In sostanza, come scrive il quotidiano dei vescovi “in gioco c’è la sopravvivenza di 600 milioni di persone, quasi il dieci per cento della popolazione mondiale”. Quelli cioè che vivono “in aree costiere alte meno di dieci metri rispetto al livello del mare”.
“L’effetto combinato dell’innalzamento delle acque, della loro acidificazione e dell’incremento dei fenomeni meteorologici estremi – ogni mezzo grado in eccesso ne moltiplica frequenza e intensità – potrebbe trasformare 267 milioni di persone in profughi alla fine del secolo“, continua Avvenire. Tre anni fa la Banca mondiale affermò che nel 2050 fino a 143 milioni di donne e uomini del Sud del pianeta dovranno fuggire dalle loro terre a causa del cambiamento climatico, e ora la blasonata rivista Nature afferma che le previsioni sono ancora peggiori, che nello stesso anno ci saranno almeno un 11 per cento in più di persone senza cibo.
Secondo Andreu Escrivà, esperto di ambiente e biodiversità di Valencia, dove lavora ai progetti scientifici della Fundació clima i energia e collabora con l’Università, “gli scienziati dell’International panel on climate change (Ipcc) hanno dimostrato che la causa del surriscaldamento del pianeta è l’attività umana. È un’affermazione incontrovertibile”. Ma che, tuttavia, la questione va analizzata nello specifico. “La responsabilità non è dell’essere umano in astratto, bensì di esseri umani storici. Gli uomini e le donne europei e statunitensi che, dall’era industriale, hanno immesso nell’atmosfera quantità crescenti di CO2″.
Non tutti però sono dello stesso avviso. Il dibattito su questo argomento procede da tempo, e c’è chi sostiene che dietro questa narrativa catastrofistica ci siano interessi ben precisi, legati ad esempio alle decisioni che vengono presi dai leader del mondo nei grandi consessi internazionali in cui si parla di ambiente. Come potrebbero essere, per fare un esempio, gli interessi del settore automobilistico nel ricevere ingenti finanziamenti che rendano economicamente vantaggioso passare dal produrre auto a benzina verso invece quelle elettriche, o addirittura ad altri carburanti eco-sostenibili. Il nodo della decarbonizzazione, insomma, oltre che una questione etica, per alcuni è anche un grande cappello di interessi economici ben poco etici.
Di avviso molto critico rispetto alla narrazione catastrofista sul clima, ad esempio, è Giuliano Ferrara. “Non crediate di fregarmi con il permafrost siberiano, l’ondata di calore canadese, il lago boliviano desertificato, gli incendi da piromania in alcune località del Mediterraneo e altre notizie di esotismo climatico estremo che sembrano allevate e coreografate come in una danza di polli in batteria. Non ci casco”, scrive Ferrara sul quotidiano da lui fondato, Il Foglio. “E’ ovvio. Il clima fa brutti scherzi, è forse questo un periodaccio, ce n’è stato nel passato storico tracciato e raccontato dall’antichità al Medioevo alle soglie del moderno, in certi luoghi della Terra si producono fenomeni estremi, bisogna provvedere”.
Le tesi di Ferrara fanno risuonare l’eco di quelle del filosofo Giorgio Agamben, particolarmente critico sulla gestione politica della pandemia ma anche sull’uso politico della paura e del terrore mediatico che si è incominciato a fare negli ultimi anni, o forse decenni. Per Agamben, dall’epoca della caduta delle Torri Gemelle, a quelle della crisi finanziaria, in linea con quanto affermato dal grande sociologo scomparso Zygmunt Bauman, viviamo in una società dove l’unico obiettivo è controllare la popolazione mondiale attraverso lo strumento del terrore, innanzitutto mediatico. Di fronte al panico, si sa, la popolazione chiede autorità, un uomo forte al comando, è disposta a rinunciare a molte cose perché ha paura. In questa strategia potrebbe certamente essere inclusa, per i pensatori più critici, l’allarmismo climatico.
“Quando mi dimostrerete che l’accanimento politico pianificatorio delle conferenze internazionali non è analogo al negazionismo di stile trumpiano, ossessivo ed eccessivo, faremo i conti con le vostre idee. Mettere il basto allo sviluppo, orientare in un senso o nell’altro le rivoluzioni industriali a cascata dei nostri decenni, affermare o disdire l’autorevolezza di istituzioni onusiane che predicono tutto ma spesso, come nel caso della pandemia, sanno poco o niente prima dell’evento, imporre un modello culturale e d’opinione e di ricerca costi quel che costi, non solo mobilitando ingenti risorse, perfino facendosi mallevadori di profetesse da cartoon come Greta, tutto questo attivismo mi sconcerta e irrita il mio scetticismo”, conclude in tono molto polemico, e con il suo solito stile ironico e paradossale, oltre che sfrontato e graffiante, Ferrara.
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“Diffido invece dei funzionari del global warming, delle chiassate, della fabbrica di suggestioni e immagini che non appartengono al dolore del mondo, del mio mondo, ma alla sua rappresentazione deformata, volontaristica, spiegabilmente ottusa nella sua ansia profetica. Abbiamo pagato prezzi assurdi al perseguimento del bene, nel secolo scorso. Accetto solo atti di bontà casuale, irriverente, privata, come la mia amica che si è negata l’acqua minerale a Milano perché è stufa di tutta quella plastica, vabbè, mi sembra autentica e sincera, ma non venite a dirmi che le mareggiate che si mangiano le coste e la rivolta periodica del fiume Reno, un Dio da sempre feroce e vendicativo, vanno spiegate con la vostra nuova religione, che l’acqua sta per arrivare in Piazza San Pietro come dovevano fare i cosacchi di Stalin. Se poi l’argomento è che siamo troppi, bè, non voglio peccare di naturalismo darwiniano se vi dico che ci penserà la natura a equilibrare il numero dei terrestri. Voi non ne avete titolo”.
Giovanni Bernardi
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