I dati sul coronavirus sembrano indicarci, con le giuste misure e nonostante l’aumento costante dei decessi, una deflazione della curva dei contagi. Tanto da fare pensare a come organizzare la cosiddetta “fase 2”.
Un elemento fondamentale di questa transizione è dato dal monitoraggio dei cittadini positivi o meno al virus, per evitare il rischio che il contagio ricominci subito con la fine del lockdown e la riapertura delle aziende. In questo, i test sierologici sono una soluzione che il governo potrebbe dare al problema.
Si tratta di test eseguiti dal prelievo di sangue grazie ai quali si può scoprire se il paziente sia mai stato infettato dal coronavirus. Viene fatto ricercando gli anticorpi prodotti dall’organismo in risposta al virus con cui si entra in contatto.
Gli anticorpi che si ricercano con queste analisi sono di due tipi. Le Immunoglobuline M, che si manifestano dopo sette giorni dalla contrazione del virus, e che permettono diagnosi di grande precisione. E le Immunoglobuline G, che vengono invece prodotte dopo 14 giorni, e che rappresentano la memoria immunitaria del proprio corpo, anche se non si sa per quanto tempo ci proteggano dal virus.
Al momento sono disponibili tre tipologie di questi test sierologici. Due di tipo quantitativo e uno qualitativo, e il secondo è più rapido, con tempi di risposta sui 15 minuti ma con precisione minore. Attenzione però, perché questi non sostituiscono i cosiddetti tamponi, che servono a verificare se la persone è infetta nel momento stesso in cui viene sottoposto il test.
Infatti, l’utilizzo solo dei test sierologici porterebbe a una mancata diagnosi nelle fasi iniziali dell’infezione. E visto che avere gli anticorpi non elimina la contagiosità verso gli altri, questo tipo di soluzione può essere adatta per monitorare gruppi di popolazione ma non per proteggere le singole persone. Si potrebbero cioè avere dei “falsi positivi” che rischierebbero di infettare altre persone.
Si sta parlando, inoltre, anche dell’idea di rilasciare, una volta ritornati a uscire liberamente, una patente di immunità. Per realizzarla, però, bisognerebbe sottoporre il tampone a tutte le persone che hanno anche sviluppato gli anticorpi, così da accedere al riconoscimento che permette una libera circolazione. Visto che i risultati incrociati direbbero che il paziente è guarito e non contagioso.
Ma bisognerebbe anche capire in laboratorio per quanto tempo l’immunità al virus si prolunghi. L’idea preventivata dagli immunologi è che l’organismo possa sviluppare una protezione al virus per “almeno un anno o due“.
La Germania sembra stia pensando concretamente di applicare questa misura. E lì si stanno già facendo dei test a cadenza fissa per analizzare le risposte immunitarie. Solo sottoponendosi a questi esami sarà possibile ricevere il “passaporto di immunità”.
Anche altri paesi hanno cominciato con i “serosurveys“. Ovvero dei test su campioni rappresentativi della popolazione, per monitorare cioè quanto si sia prossimi all’immunità di gregge. Che permetterebbero, infine, anche di capire chi avrebbe eventualmente bisogno prioritario di effettuare il vaccino, una volta che questo sarà diffuso.
Giovanni Bernardi
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