Anche i politici e gli uomini di governo hanno il loro santo patrono: è il martire inglese Tommaso Moro (1478-1535).
I santi sono gli eroi del cristianesimo, anche se ad alcuni fa paura parlare di eroismo. Soprattutto nei tempi anti-eroici che stiamo vivendo. Che i nostri tempi siano l’epoca della mediocrità, della standardizzazione che coincide con la stagione meno eroica della storia appare chiarissimo da mille e mille segni.
Se regna nelle anime l’edonismo, che è il culto del piacere come stile di vita, è chiaro che l’eroismo non si sa più cosa sia. Anzi, diviene un nemico, il principale oppositore della quiete, della (falsa) pace in cui l’uomo-massa vorrebbe vivere e morire, immerso nei vizi, nei godimenti e nel peccato.
L’egoismo scaccia l’eroismo, e l’egoismo è, in un certo senso, il peggiore dei mali, poiché collima più o meno con l’origine di tutti i peccati. Secondo s. Tommaso, “Unde manifestus est quod inordinatus amor sui est causa omnis peccati” (Summa theologiae, I-II, q. 77, a. 4). Il che si traduce facilmente così: “E’ quindi evidente che l’amore disordinato di sé è la causa di tutti i peccati”.
L’amore che l’egoista ha di sé è certamente disordinato, superficiale, ingiusto e in fondo bestiale. Contro l’eroismo insegnato dal Vangelo e praticato da Cristo – l’Eroe per antonomasia – esiste anche un’altra tendenza oppositiva e contrastante, l’erotismo. Delle due l’una: o una società che tende all’eroismo, o una società erotizzata da far schifo come la nostra. Insieme, queste realtà non tengono!
Siamo riusciti a trasformare il mondo, anzitutto dal nefastissimo ‘68, in un pastrocchio di egoismo esasperato e di erotismo esasperante. Il marxista Bertold Brecht, nella sua celebre Vita di Galileo, scrisse “Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi”. Mettendo l’assurda esclamazione sulla bocca stessa di Galileo il quale, malgrado certe sue contraddizioni teoriche e i suoi vari errori fattuali, fu certamente un “eroe della scienza”.
Ma l’eroismo, oggi come ieri e forse più di ieri, ci serve come il pane: nella politica, nella Chiesa, nelle famiglie, in tutti i gangli della società.
Dio essendo infinito, eterno, illimitato e assolutamente inimitabile e irraggiungibile, ha creato un universo conforme alla sua dignità. Mettendovi al centro l’uomo, fatto – specie nell’anima spirituale e nella sua capacità di volere di pensare di amare – a sua immagine e somiglianza.
Ogni essere riflette qualcosa dell’Essere Primo. Ma in modo certamente diseguale e gerarchico: non c’è proporzione tra il minerale, il vegetale, l’animale irrazionale e l’essere ragionevole, il capolavoro della creazione (assieme agli angeli).
Ma se l’uomo riflette l’immagine di Dio assai più che la pietra, è anche vero che l’uomo di virtù riflette molto meglio la sapienza divina che il criminale e il mondano.
I santi sono in tal senso gli specchi delle virtù divine: tutti assolutamente diversi tra loro, ma tutti innamorati dell’Unico Amore illuminante e divinizzante.
La vita di san Tommaso Moro è particolarmente istruttiva per i giorni nostri ed è probabilmente per questo che Giovanni Paolo II lo ha proclamato, il 31 ottobre del 2000, celeste patrono di coloro che dovrebbero difendere la giustizia e la verità al di sopra di tutto (cf. Lettera Apostolica per la proclamazione di san Tommaso Moro patrono dei governanti e dei politici).
“Proprio per la testimonianza, resa fino all’effusione del sangue, del primato della verità sul potere, san Tommaso Moro è venerato quale esempio imperituro di coerenza morale” (n. 1). Inutile sottolineare l’abisso che separa chi offre la vita per il primato della verità e chi non crede in nessuna verità (scettici e relativisti) o sostiene la sola verità dei propri comodi e dei propri interessi (edonisti e carrieristi vari).
La vita di Thomas More è caratterizzata da una rapida ascesa nel servizio del monarchia inglese; un’ottima biografia è quella di Louis Boyer, Tommaso Moro, umanista e martire, Jaca Book, 1994. Sposato nel 1505, ebbe 4 figli, e vedovo nel 1511 si risposò, mostrando così che la ricerca della virtù eroica si adatta benissimo al matrimonio e alla vita di marito e di padre. “La vita di famiglia lasciava, per altro, ampio spazio alla preghiera comune e alla lectio divina, come pure a sane forme di ricreazione domestica. Tommaso partecipava alla Messa quotidianamente nella chiesa parrocchiale, ma le austere penitenze che adottava erano conosciute solo dai suoi familiari più intimi” (n. 2).
Successivamente, ebbe incarichi di primissimo piano: giudice, membro del Consiglio della Corona, presidente della Camera dei Comuni, Cancelliere del regno, etc. etc.
“Nel 1532, non volendo dare il proprio appoggio al disegno di Enrico VIII che voleva assumere il controllo sulla Chiesa in Inghilterra, rassegnò le dimissioni. Si ritirò dalla vita pubblica, accettando di soffrire con la sua famiglia la povertà e l’abbandono di molti che, nella prova, si rivelarono falsi amici” (n. 3).
Enrico VIII lo fece imprigionare nella celebre Torre di Londra per estorcergli in qualche modo l’accettazione del suo secondo matrimonio (invalido) con Anna Bolena e dell’Atto di supremazia (1534) con cui il re si dichiarava capo assoluto della Chiesa inglese.
Ma Tommaso Moro, pur dotto, raffinato ed umanista com’era, restò sempre fedele all’antica Chiesa di Roma, alla Tradizione cattolica sine glossa e alla propria luminosa coscienza di fedele. E come si oppose strenuamente alla penetrazione delle idee di Lutero in Gran Bretagna, così restò fedele al Signore del Cielo anche davanti alla tirannia dei signori della terra.
Davanti ad una politica laica, corrotta e scandalosa che sembra dilagare nelle attuali democrazie d’Occidente, l’esempio di santità di Tommaso Moro dovrebbe incoraggiare i buoni al bene e far ravvedere i cattivi di ogni risma. Scrive a guisa di sintesi Giovanni Paolo II: “lo statista inglese pose la propria attività pubblica al servizio della persona, specialmente se debole o povera; gestì le controversie sociali con squisito senso d’equità; tutelò la famiglia e la difese con strenuo impegno; promosse l’educazione integrale della gioventù. Il profondo distacco dagli onori e dalle ricchezze, l’umiltà serena e gioviale, l’equilibrata conoscenza della natura umana e della vanità del successo, la sicurezza di giudizio radicata nella fede, gli dettero quella fiduciosa fortezza interiore che lo sostenne nelle avversità e di fronte alla morte. La sua santità rifulse nel martirio, ma fu preparata da un’intera vita di lavoro nella dedizione a Dio e al prossimo” (n. 4).
Anche la nobile missione del politico, dell’uomo di governo e dell’amministratore della giustizia vanno preparate poco a poco, fino a giungere al radicamento del cuore nella verità (che non muta) e al distacco dai beni che il mondo offre per corrompere (ricchezze, piaceri, onori).
La modernità insegna la separazione tra Stato e religione, e tra politica (democratica) ed etica (cristiana). Giovanni Paolo II, indicando il Moro come esempio per gli uomini di oggi, scrive esattamente il contrario: “L’’uomo non si può separare da Dio, né la politica dalla morale” (n. 4)
Solo adottando questi principi di fondo fioriranno, anche tra i politici e i cittadini, uomini che scelgano sentitamente l’eroismo, il bene comune e il servizio, fino al sacrificio di sé per il bene di tutti.
Fabrizio Cannone
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