Enrico Lovascio era un giovane carpigiano di 22 anni. La leucemia l’ha portato in cielo. Ma il suo esempio di fede ha toccato l’intera città di Carpi e non solo.
La sua storia, profondamente umana e fatta di sogni, progetti e speranze, si è fermata per un terribile male. Ma non si è interrotta, perché ora continua nei tanti che lo hanno conosciuto e i cui cuori sono stati profondamente segnati dal suo esempio. Il giovane ha frequentato le attività dell’Azione Cattolica, è diventato educatore della parrocchia della Cattedrale di Carpi, lì ha seguito il percorso nell’Agesci. Era anche diventato capo scout del Carpi 1. La notizia del suo male è arrivata come un fulmine a ciel sereno.
Così lo scorso 23 dicembre si è dovuto sottoporre al trapianto. Tuttavia, in un primo momento, il suo stato di salute e il decorso della malattie sembravano progredire nella direzione migliore, quella sperata. La notte del 6 gennaio, però, arriva la dura notizia. Il cuore di Enrico si è fermato all’improvviso. Un arresto cardiaco l’ha portato via, in cielo. La comunità diocesana, e non solo, si sono trovate da un momento all’altro, profondamente sconvolte. La sua vita era infatti un esempio per tanti.
Oltre ad essere educatore cattolico Enrico aveva tante passioni, dalla pallacanestro alla musica, come componente di varie band, fino al suo studio, nella facoltà di Ingegneria. La sua famiglia, composta dal papà Giuseppe, dalla mamma Raffaella, dalla sorella Elena e dal fratello Davide, seminarista in cammino verso il presbiterato, sapevano bene di che pasta fosse fatto.
Eppure il Signore lo ha voluto con Lui prima del previsto. Ora la stessa famiglia pensa di istituire un Fondo per sostenere bambini e ragazzi di famiglie in difficoltà economica nei percorsi musicali e sportivi, all’interno delle stesse realtà locali in cui Enrico prestava il suo tempo e il suo impegno.
Sabato 9 gennaio si è svolto il suo funerale nella Cattedrale di Carpi. La popolazione locale ha risposto con grande partecipazione e commozione all’ultimo saluto al giovane, riversandosi in Massa alla celebrazione, per quanto possibile con le norme anti-Covid. Sulla bara, il suo fazzolettone da Scout.
Il Rito funebre è stato presieduto dal vescovo di Carpi e Modena, Mons. Erio Castellucci, insieme a numerosi sacerdoti concelebranti. “Il silenzio potrebbe bastare. Il silenzio e il fiume di lacrime sgorgate dagli occhi di chi ha conosciuto e amato Enrico”, sono le parole pronunciate dal vescovo e riportate dal quotidiano Avvenire.
“Il silenzio sembra l’unica voce adatta a un dolore così grande, a un mistero così fitto, a una morte che ci lascia attoniti. Se abbiamo l’audacia di rompere il silenzio, in punta di piedi, non è per pronunciare parole terrene, impotenti e banali davanti all’enigma della morte, ma per lasciar risuonare l’unica grande parola di vita eterna”, ha proseguito monsignor Castellucci.
“Non ci confortano le altre, le parole di vita terrena; non ci danno speranza né quelle parole che consegnano la continuazione di una vita al solo ricordo dei cari, né tantomeno quelle che ammutoliscono davanti alla fine, pensando che la morte polverizzi tutto”. Di fronte a tanto dolore, a tanta ingiustizia, ogni volta risuonano le parole di Gesù sulla Croce. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).
In un attimo tanti sogni, desideri, intenzioni di realizzare cose belle e grandi, che sembrano essere svanite per sempre. In un istante tutto l’amor dato e ricevuto, immaginato e sognato, la gioia e lo slancio di un’intera esistenza, sembra spegnersi e perdersi nel vuoto. Tuttavia, le logiche del Signore non sono di certo le logiche di questo mondo. L’amore riversato dal giovane sugli altri, e viceversa, non è di certo perduto.
Anzi, al contrario, è forse proprio ora che, se questo amore ha seminato abbastanza, raccoglierà ancora più frutti. Non conosciamo le opere che i defunti compiono dal cielo per noi uomini, ma di certo questi non ci abbandonano mai, e mai lo faranno. “Se la nostra esistenza finisse con la morte, se le nostre speranze fossero destinate al nulla eterno, se i nostri passi terreni, spesso incerti e faticosi, scivolassero in un abisso oscuro, la vita intera perderebbe senso”, ha infatti spiegato monsignor Castellucci.
Al perché, infatti, ha spiegato il religioso, bisogna sostituire la domanda: per chi? Nella fede, per chi viviamo? Per noi o per il Signore? Allora capiamo anche qual era la spinta che motivava le azioni di Enrico. “Per chi vive Enrico? Vive per noi. La sua breve esistenza terrena, interrotta troppo presto, è una scuola per noi”, ha spiegato il vescovo. “Ci insegna a distinguere l’essenziale dal superfluo, ad impegnare le nostre energie nelle cose che contano, senza disperderle nelle superficialità, nelle invidie, nei litigi, nelle frivolezze, nelle rivalità”.
“Come si scolorano, davanti alla vicenda di un giovane che muore, i troppi inutili impulsi che investiamo nelle cose che passano!”. “L’esistenza umana non è impreziosita dalla lunghezza degli anni, ma dall’intensità con cui è vissuta”, ha così concluso il vescovo, ricordando che infine, ma soprattutto, “Enrico vive per il Signore. Anche in lui ora si realizza la promessa fatta a Davide: ‘Gli conserverò sempre il mio amore’. Quello di Dio è un amore che travolge la morte”.
Giovanni Bernardi
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