Tre calciatori vanno controcorrente e non si piegano ai diktat “inclusivi” – e ben poco tolleranti – di chi vorrebbe che tutti si vestissero di arcobaleno.
Oggi va di moda un parolone come “inclusività”. È il termine politicamente corretto che ha preso il posto di quelle che un tempo si sarebbero definite “larghe vedute”. A ben vedere però queste vedute tanto larghe poi non sono. Anzi sono piuttosto striminzite. Già, perché alla prova dei fatti gli “inclusivi” si mostrano ferocemente intolleranti con tutti quelli che a loro insindacabile giudizio non sono altrettanto inclusivi.
Nulla di particolarmente nuovo: i giacobini di ieri vestivano di rosso o di nero. Quelli di oggi indossano panni rainbow, multicolori, arcobalenati. Ma non hanno perso il vizietto di sempre: quello di credersi una minoranza moralmente superiore, un corpo mistico di eletti che si arroga il diritto/dovere di costringere tutti gli altri a essere inclusivi come loro. Anche a costo di tiranneggiarli.
Insomma: ci vuole coraggio a dire di no alla religione laica dell’inclusività nel momento in cui, per dirla all’americana, we have skin in the game. Quando in gioco c’è un interesse molto concreto come la nostra pelle, in altre parole. A non essere abbastanza inclusivi si rischia magari la carriera, facile da compromettere quando ci si ostina a credere, nell’anno di grazia 2024, a cose impronunciabili come il “matrimonio solo tra uomo e donna”.
E che dire degli “arretrati” tuttora convinti che i bambini abbiano bisogno di un papà e di una mamma? Prendere una posizione pubblica a difesa di valori così “esclusivi” oggi rischia di costare caro. Come minimo un boicottaggio, un linciaggio sui media, una carriera rovinata… Del resto si sa: il coraggio ha sempre un prezzo da pagare.
In questi giorni hanno fatto scalpore nel Regno Uniti tre giovanottoni accomunati dalla professione – quella del calciatore – che hanno scelto di andare controcorrente rispetto ai diktat “inclusivi” (ma ben poco tolleranti verso i dissidenti) di quello che anche da noi ormai viene chiamato “wokismo”.
Parliamo di Marc Guehi, Noussair Mazraoui e Sam Morsy. Cominciamo dal primo, 24enne capitano del Crystal Palace e difensore centrale della nazionale inglese all’ultimo Europeo. Adesso rischia una multa salata e la squalifica per aver osato scrivere con il pennarello “I love Jesus” (io amo Gesù) sulla fascia arcobaleno che i capitani della Premier League hanno dovuto indossare nelle partite delle ultime due giornate per celebrare l’inclusione (ovviamente) e la solidarietà con la comunità LBGTQ+.
Guehi, devoto cristiano e figlio di ministro protestante in una comunità a sud di Londra, ha spiegato il suo gesto con la volontà di mandare un «messaggio di amore e anche di verità». Ma niente da fare: siamo pur sempre nella terra di John Locke, padre della neutralità statale in campo religioso (come se la religione dell’inclusività non avesse i suoi riti e i suoi dogmi). La FA gli ha ricordato che sui kit di gioco sono proibiti messaggi di natura politica o religiosa.
Ancor più drastici sono stati forse gli altri due protagonisti: Mazraoui e Morsy. Il primo, difensore marocchino di 27 anni in forza al Manchester United, si è rifiutato domenica scorsa di indossare una tuta Adidas a sostegno della comunità Lgbtq+ prima della partita contro l’Everton. Ai suoi compagni di squadra ha motivato il rifiuto con la sua fede musulmana. È finita che nessuno dei suoi colleghi ha voluto indossare la casacca “inclusiva” che avrebbe però “escluso” Mazraoui, destinato altrimenti a essere l’unico a farsi vedere in pubblico senza aver addosso i colori dell’arcobaleno.
Anche quando giocava con i tedeschi del Bayern Monaco Mazraoui è stato criticato aspramente per il mancato supporto alla causa LGTBQ+. I tifosi bavaresi lo hanno contestato pubblicamente con uno striscione in cui chiedevano al nazionale marocchino “rispetto” per i loro valori. C’è poco da fare: non si è dimostrato “inclusivo” come loro.
Last but not least, come direbbero gli anglofoni, ecco Sam Morsy. Anche lui, centrocampista anglo-egiziano di 33 anni, si è reso protagonista di un “gran rifiuto”. Musulmano praticante, Morsy è stato l’unico tra i venti capitani della Premier League a non voler indossare la fascia arcobaleno durante il match tra il suo Ipswich e il Crystal Palace di Marc Guehi (quello della scritta “I love Jesus” sulla fascia rainbow).
Il club ha rispettato la sua decisione ma in un comunicato ha voluto puntualizzare di aver «previsto molte iniziative per aderire a questa campagna». Che dire? Il miglior commento a queste prese di posizione decisamente contrarie allo spirito del tempo ci sembra un pensiero scritto dal beato e martire Franz Jägerstätter, in un taccuino di riflessioni dedicate «a chi si incammina senza meta, vaga povero e stanco» per spiegare le ragioni del suo rifiuto dell’ideologia nazista: «Per ritornare felicemente a riva non ci rimane che nuotare controcorrente». In un mondo che va al rovescio è l’unico modo per rimanere sulla retta via. È l’unica vera ribellione che vale la pena di portare avanti.
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