Non è la prima volta che il Pontefice si sofferma su questa specifica qualità, e durante l’udienza ha evidenziato i modi, davvero sorprendenti, con cui essa si fa strada tra gli uomini.
Riprendendo alcuni passaggi della lettera apostolica Patris Corde, durante l’udienza generale odierna, papa Francesco ha approfondito come questa si manifesta in San Giuseppe.
I Vangeli, ha spiegato il Pontefice, non approfondiscono particolarmente il risvolto della paternità di San Giuseppe, seppure l’epiteto di “uomo giusto”, sia stato tradotto “anche nell’educazione data a Gesù” (cfr Lc 2,52).
Gesù, dal canto suo, “ha usato sempre la parola “padre” per parlare di Dio e del suo amore”. Si pensi alla parabola del “Padre misericordioso” (cfr Lc 15,11-32), più nota, a livello popolare, come la parabola del “Figliol prodigo”.
In questo celeberrimo passo, si sottolinea “oltre all’esperienza del peccato e del perdono, anche il modo in cui il perdono giunge alla persona che ha sbagliato”. Se è vero che “il figlio si aspettava una punizione”, al limite una sua ricollocazione come “uno dei servi”, egli viene sorpreso “dall’abbraccio del padre”.
“La tenerezza è qualcosa di più grande della logica del mondo – ha commentato il Santo Padre –. È un modo inaspettato di fare giustizia”. Del resto, “Dio non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute” ma “dalla chiusura del nostro cuore, dalla nostra mancanza di fede nel suo amore”.
Il primo a trasmettere a Gesù “l’esperienza dell’amore di Dio” è stato proprio Giuseppe: “le cose di Dio – ha spiegato il Papa – ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane”. Dobbiamo allora chiederci “se noi stessi abbiamo fatto esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni”.
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La tenerezza, ha osservato Francesco, non è tanto una “questione emotiva o sentimentale” ma è “l’esperienza di sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria, e quindi trasformati dall’amore di Dio”, il quale “non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta”.
San Paolo, ad esempio, riconosce che “c’è un progetto anche sulla sua fragilità” e che, affinché lui non montasse in superbia, è stata data alla sua carne una spina, un inviato di Satana a percuoterlo (cfr 2Cor 12,7-9); Dio però gli ha detto: “Ti basta la mia grazia”. E gli ha ricordato che la forza si manifesta nella debolezza (cfr Ibidem). Il Signore, infatti, “non ci toglie le debolezze ma ci aiuta a camminare con le nostre debolezze, tenendoci per mano”.
È importante “incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza”. Inoltre, ha ricordato Bergoglio, anche il Maligno, paradossalmente, “può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci”. La Verità che viene da Dio, al contrario, “non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona”.
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Senza la “rivoluzione della tenerezza”, finiremmo “imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione”. Parlando di chi è in carcere, il Santo Padre ha detto: “È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto più giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore”.
A conclusione dell’Udienza Generale, il Pontefice ha recitato una nuova preghiera: “San Giuseppe, padre nella tenerezza, insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole. Fa’ che non mettiamo nessun impedimento tra la nostra povertà e la grandezza dell’amore di Dio. Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione, per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà. Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo; aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare. E insegna loro che il primo modo di ricominciare è domandare sinceramente perdono. Amen”.
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