Il potente racconto dei sacerdoti che sono stati chiamati a fare i cappellani nei reparti Covid arriva come una luce che squarcia le tenebre della malattia.
Sei sacerdoti della diocesi di Reggio Emilia sono infatti stati ammessi all’inizio dicembre come cappellani nei reparti Covid degli ospedali locali. Ciò è stato possibile grazie a una convenzione tra Ausl e diocesi. Sono i primi di un gruppo di diciotto sacerdoti che si avvicenderanno tra loro all’interno dei tre ospedali del territorio, che sono quelli di Reggio Emilia, Scandiano e Guastalla.
Il racconto dei primi due sacerdoti chiamati negli ospedali Covid
Tra questi ci sono don Giordano, 50 anni, parroco a Novellara, e don Giovanni, 36 anni, viceparroco a Guastalla. I due sacerdoti, che hanno raccontato la loro esperienza al quotidiano Avvenire, hanno iniziato insieme nelle corsie a Guastalla il 9 dicembre. I due sono andati a vivere insieme in un appartamento al fine di tutelare la salute degli altri sacerdoti con cui vivevano in precedenza. Questo isolamento è stato alla base di una esperienza unica e particolarmente profonda di servizio al Signore.
Prima di quella esperienza, la loro missione nella chiesa si era limitata alla parrocchia, all’oratorio e alla pastorale giovanile. I reparti Covid erano, fino a quel momento, più che altro elementi di una narrazione che emergeva dai media o dalle voci delle persone che sono state contagiate. Ma la sofferenza dei tanti familiari strappati ai propri cari e deceduti senza nemmeno poter dire un ultimo addio li ha colpiti nel profondo. Vivere quell’esperienza dall’interno di ospedale, poi, è senza dubbio un’altra cosa.
Covid: i religiosi si sono trovati spogli di ogni “piano pastorale”
“Un grande aiuto ci è venuto dal personale sanitario e dalla dirigenza che ci hanno accolto e accompagnato”, hanno spiegato. “Ma il vero aiuto sono stati i malati stessi che hanno sciolto tensioni e paure e ci hanno presi per mano. Ciascuno con la sua storia e le sue caratteristiche, la voglia di parlare o tacere, la gioia di incontrare un prete o i pregiudizi per starne alla larga”.
I religiosi hanno così raccontato di essersi sentiti “vestiti di tutto punto”, a causa dei dispositivi sanitari necessari per entrare all’interno dell’ospedale, ma allo stesso tempo si sono sentiti anche “spogli di strategie pastorali”. “Niente del ruolo che ricopri là fuori conta più tanto quando sei qua dentro. Tutto diventa essenziale, semplice, vitale”, spiegano. “Per questo impegno ci siamo concessi tanto tempo”.
“Rimanere da soli con le proprie paure: ecco l’inferno”. Ma c’è il Signore
C’è il tempo per stare lì, per chiacchierare e ascoltare, per pregare e piangere, per stare accanto anche senza dire nulla. Il tempo per tenere una mano, per accarezzare un volto, per riaggiustare i capelli increspati dal cuscino. Il tempo per andarsene quando l’altro è stanco e ti accorgi che non è il caso, o non ha voglia. Il tempo per tornare domani, tessendo pian piano nuovi legami, aprendo spiragli di confidenza
“In terapia intensiva la lotta è durissima e tutti sanno bene che l’ipotesi di non farcela è reale. La paura è subdola, si radica nel profondo del cuore, rapisce ogni energia e divora la luce. Allora le mani contano più delle parole, gli sguardi più che i discorsi. Si può lenire la paura, calmarla un po’, ma ciascuno rimane con la sua, soprattutto in ospedale dove le notti sono lunghe e desolate. Rimanere da soli con le proprie paure: ecco l’inferno“.
La testimonianza dei sacerdoti all’interno dell’ospedale serve invece a tutt’altro, a spiegare agli stessi pazienti impauriti, uomini e donne segnati dal male del virus, che non si è mai soli. Che il Signore non abbandona mai i suoi figli, che non saremo mai privi del suo amore infinito e incondizionato, sul quale non bisogna mai smettere di fare affidamento.
Giovanni Bernardi